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Quello che è successo in questi giorni in Congo (l’uccisione dell’ambasciatore italiano, del carabiniere di scorta e dell’autista che lo accompagnavano) ha fatto ritornare prepotentemente alla memoria i 13 anni vissuti in Congo e in Camerun. Certo il Mal d’Africa si cura solo tornando. Chissà, se mi sarà possibile. Davanti ai miei occhi rivedo i volti, i canti, gli incontri... Tante persone mi hanno regalato qualcosa della loro vita.

Si è ricominciato a parlare di Africa e di Congo RD (ma fino a quando?). Quante volte i missionari religiosi, laici e volontari lo hanno fatto e spesso non sono stati ascoltati? Perché quello che succede laggiù non interessa o forse non vogliamo sentirli vicini? Eppure, papa Francesco ci dice che dobbiamo “prenderci cura” di ogni persona... L’Africa è stata sempre parte dei miei sogni. Quando sono partito, non mi ero accorto che avrei dovuto lasciare qualche bagaglio in Europa (pregiudizi, commenti, senso di superiorità…). Ma, per fortuna, appena arrivato, me lo hanno fatto capire. Mi hanno detto, alla loro maniera, che quella ormai era casa mia e che avrei dovuto mescolare la mia vita con la loro. E così ho incominciato a fare.

La prima sfida è stata quella di imparare la lingua (in Congo il kiswahili). E i migliori maestri, i più severi, erano i bambini che, di fronte al mio balbettare, si mettevano a ridere. Poi però, con molta comprensione, mi correggevano e allora anch’io ridevo insieme a loro. Così, giorno dopo giorno, sentivo l’Africa come se ci fossi vissuto da sempre. Su e giù per le colline, in mezzo alle strade a volte piene di fango, facevo dei veri e propri safari (viaggi) sul lago Tanganika per andare a trovare i cristiani della prima parrocchia (130 km di distanza). Non tutto è facile, soprattutto quando vedi che chi li dovrebbe aiutare a sentirsi persone (i loro governanti), se ne approfittano per portare via il minimo che hanno per vivere. Allora ti viene voglia di reagire, sapendo che dietro ci sono altre realtà (le nazioni più ricche del pianeta). Ti chiedi come intervenire per gridare a tutti che bisogna smettere di rubare il futuro. Noi missionari cerchiamo di farlo, ma dobbiamo essere in tanti.

Cerchiamo di realizzare insieme progetti con loro, perché hanno diritto alla dignità e sono pieni di fantasia. Far conoscere l’Africa è un dovere (oggi molti apparecchi tecnologici che usiamo hanno materiali che provengono da là, frutto del sudore di tante persone, tra cui molti bambini…). L’Africa sarà sempre nel mio cuore: le mamme che al mattino presto partono a piedi per andare a lavorare i campi; i papà che le accompagnano; i bambini che si fanno chilometri per andare a scuola; la messa domenicale vissuta con gioia, danzando e offrendo i frutti della terra; il servizio alla comunità dopo la giornata di lavoro; visitare le persone dimenticate… Andate in Africa, non da turisti, ma da cittadini di questo continente.

Se ti trovi bene in Africa, ti troverai bene dappertutto. Loro ti guardano negli occhi e vedono se il tuo cuore è libero. Non puoi nascondere niente e, se lo fai, allora diventi triste. Voglio terminare, ricordando gli occhioni dei bambini che vedono per la prima volto un muzungu (un bianco). Si nascondono un attimo e poi rispuntano ancora, aprendo il volto al sorriso. E così mi vien da dire: “Aksanti, mama Africa. Mungu akipenda, tutaonana tena” (Grazie mamma Africa; se Dio vuole, ci vedremo ancora).



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