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P. Giuseppe Arnoldi: Missionario della speranza, Indonesia

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Siamo a Bergamo. Papà Pietro lavora nella grande fabbrica di Dalmine e deve fare dieci chilometri in bicicletta. La sposa Maddalena si alza alle 5 per preparargli la colazione e dirgli "buon lavoro!". Poi lei va alla Messa delle 6, anche nel gelo dell'inverno, portandosi dietro il figlio Giuseppe che fa da chierichetto.

La vita è dura, ma a tavola c'è sempre un posto per l'ospite che arriva all'improvviso. Così i figli imparano ad avere compassione per i poveri. La mamma parla molto con l'esempio. La sua giornata è piena, per la famiglia e anche per tante persone che vengono a confidarsi con lei. Fa anche dei piccoli servizi e alla sera, quando tutta la famiglia si riunisce per recitare il rosario, è proprio stanca.

Il piccolo Giuseppe cresce in questo clima di amore a Dio e ai fratelli: così nasce la vocazione del missionario! Infatti, tanti anni dopo, Giuseppe è missionario in Indonesia e mette in pratica quello che i genitori gli hanno insegnato. A chi gli chiede da dove viene, risponde: "Sono di razza italiana e appartengo alla tribù dei bergamaschi. Io predico quello che ho ricevuto da bambino dalla mia famiglia, dall'oratorio e dagli amici".

In una lettera scrive: "Qui anche i bambini delle elementari, dopo la scuola, lavorano per guadagnare qualcosa: vendono dolci o giornali, oppure lavano i piatti nei ristoranti. Purtroppo la gente è troppo preoccupata nel far soldi, e questo impedisce loro di vivere sereni e fiduciosi. Io predico che bisogna praticare la giustizia, amare con tenerezza e vivere umilmente davanti a Dio. Ma dovrei essere più santo e avere l'entusiasmo di san Paolo per trasformare questo angolo di mondo!".

C'è anche un lebbrosario. Padre Giuseppe ci va volentieri per celebrare la Messa e passare un po' di tempo con i lebbrosi. Il sacrestano gli aveva detto: "Padre, qui ci sono molti dolori". E il suo commento è questo: "Imparo tanto dai lebbrosi. Sanno fare di tutto, anche chi ormai è senza mani. Ogni volta che mi guardo le mani, dico «grazie» al Signore".

È felice della vita missionaria: "Mi godo tutta questa gente, soprattutto i bambini che dormono in braccio alle mamme, e piangono e ridono secondo i momenti. Come è bella la vita con i bambini: ci si dimentica che si può diventare vecchi. E come sono meravigliose queste mamme che allattano i loro bimbi, contente e indaffarate".

Per una grave malattia, p. Giuseppe deve lasciare la missione e tornare in Italia. Muore a Parma, vicino alla tomba di san Guido Conforti.

Un testimone ha detto: "Mi sembrava di essere accanto a un bambino, sorridente e affabile con tutti. Dovessi dipingere il suo ritratto, lo farei con un gran sorriso. Era l'uomo della speranza".



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