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Lo scolaro e la pelle di pitone

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In Italia, i bambini raggiungono la scuola senza problemi, anzi ci vanno molto comodamente: in macchina con i genitori oppure con il minibus scolastico. Invece, in Congo (e in Africa in generale), fanno molta più fatica e spesso con qualche rischio.
Quando sono arrivato in Congo nel 1965, di solito, nei piccoli villaggi non c’era alcuna classe di scuola elementare. Sicché, fin dai 5-6 anni di età, ogni mattina i bambini dovevano percorrere diversi chilometri (anche 4-5 o più, sia all’andata che al ritorno) per raggiungere un villaggio più grande, dove c’era la scuola. Da soli, o in gruppetti, questi bambini attraversavano coraggiosamente zone difficili di savana, boscaglia e talvolta di vera foresta.

L’altra grande diversità tra gli scolari italiani e quelli congolesi riguarda l’equipaggiamento scolastico. I bambini italiani portano sul dorso un voluminoso zainetto, stracolmo di libri, diari, quaderni piccoli e grandi, varie penne e pennarelli, kit di colori e pennelli, righe, righelli, forbicine e poi biscotti, bevande, fazzoletti… tanto che spesso sono i genitori a trasportarlo a causa del suo peso eccessivo. Al contrario, i bambini congolesi non hanno nulla di tutto ciò (però in questi ultimi tempi la situazione è cambiata, specie nei villaggi più importanti, dove ci sono numerosi articoli di commercio). Allora, dovevano accontentarsi di poco o nulla, ossia di “quaderni di legno” se poveri, o di “quaderni di foglie” se di famiglia benestante. Mi spiego con un racconto di cui sono stato co-protagonista in un piccolo villaggio del Kivu, la regione in cui era situata la mia missione, negli anni ‘70.

In quei tempi lontani, vedevo gli scolari recarsi a scuola con un pezzo di legno sotto il braccio, che serviva appunto da “quaderno”. Dal legno tenero di uno certo albero si ricavavano delle tavolette di colore giallo paglierino, su cui gli scolaretti scrivevano con degli oggetti a punta (in seguito le tavolette sono state sostituite in gran parte da lavagnette di compensato nero). Un giorno ricevetti dall’Italia un pacco di quaderni, non sufficienti per essere distribuiti a tutti gli scolari di un villaggio. Preferii conservarli per consegnarli alla fine del trimestre come premio ai bambini più meritevoli. Felicissimi per questi doni straordinari, non sapendo di che materia fossero fatti, i bambini dettero ai primi quadernetti di carta il nome pittoresco di “quaderni di foglie”, perché le pagine erano sottili e flessibili, proprio come le foglie degli alberi.

Una mattina, attraverso la griglia di bambù della capanna, dove alloggiavo con un mio confratello, vidi un bambino di circa otto anni che arrivava, zoppicando, dal cortile della scuola vicina. Teneva sotto il braccio un voluminoso rotolo di cui non riuscivo a comprendere la natura. Uscii sulla soglia e lui si presentò a me alquanto titubante. Per incoraggiarlo gli rivolsi il saluto tradizionale: “Jambo rafiki (Ciao amico); come ti chiami?”, gli chiesi. “Mateso (Dolori)”, mi rispose. Gli dissi di avvicinarsi e scoprii che il suo rotolo era una bellissima pelle di pitone. “Desideri qualcosa? Come posso aiutarti?”. Con la testa bassa e con un fil di voce, quasi balbettando, Mateso mi disse: “Sono venuto… a portarti questo rotolo”. “Grazie! Non aver paura. Dimmi se desideri qualcosa”. A mezza voce, Mateso disse timidamente: “In cambio di questo rotolo di pelle… desidero avere un quaderno di foglie”. Rimasi sorpreso dal fatto che il ragazzino valutasse così poco quella splendida pelle di pitone che, srotolata per terra, misurava quaranta centimetri di larghezza e oltre sette metri di lunghezza.

Il piccolo Mateso pensava che fosse un oggetto senza valore rispetto a un quaderno di sedici pagine; invece il valore di un quaderno era proprio insignificante a confronto di quella stupenda pelle di pitone. Per far contento Mateso, gli offrii non uno ma diversi quaderni. Quando, felice per il dono ricevuto, il bambino stava andando via, mi accorsi che zoppicava malamente. Lo richiamai per sapere cosa gli fosse successo e anche per aiutarlo. Quando mi si avvicinò, notai che Mateso aveva una vistosa ferita al polpaccio. Pensai subito che si trattasse di una “piaga tropicale”, molto diffusa in quella regione, soprattutto tra i bambini denutriti. Aguzzai la vista sul polpaccio e vidi che la forma non era quella allargata di un’ulcerazione ma di una ferita netta, come di arma da taglio.

“A quando risale questa brutta ferita?”. Mi rispose: “Otto giorni fa, venendo da scuola, dopo aver attraversato il fiume, un serpente mi ha aggredito”. “Un serpente!”, esclamai preoccupato. “Sì, un serpente! È stato un pitone ad aggredirmi. La pelle che ti ho portato è quella del serpente che ha cercato di uccidermi. Per fortuna, ero a poca distanza dal villaggio. Ho gridato con tutta la forza. Così le mie urla sono state sentite dalla gente e i soccorritori sono accorsi prontamente con coltellacci e lance. Mi hanno trovato che ero già tutto avvolto dal pitone, che si apprestava a stritolarmi. Questa brutta ferita me l’ha fatta un colpo di lancia che, anziché colpire il serpente, per errore è finito nel mio polpaccio”.

Sono rimasto profondamente scosso dal pericolo mortale in cui Mateso era incappato e, con tutto il cuore, ho ringraziato il Signore per aver salvato il mio piccolo amico. Per completare la storia della sua disavventura, Mateso mi raccontò che, in seguito, i suoi salvatori, dopo aver rapidamente scuoiato il pitone, si spartirono la sua soffice carne buona per farne un arrosto saporito per il pranzo. A lui, per consolarlo del grande spavento patito, regalarono un grosso pezzo di carne come cibo succulento e l’intera pelle del pitone come trofeo di cui vantarsi per tutta la vita.

Ed ecco un altro motivo che mi ha commosso profondamente. Invece di tenersi quel trofeo di cui inorgoglirsi davanti a tutti, il piccolo Mateso se ne era privato con grande sacrificio pur di possedere un “quaderno di foglie”, ossia un oggetto che l’avrebbe aiutato nello studio. Di questo sì che avrebbe potuto vantarsi in seguito. Stupito da tanta grandezza d’animo nel cuore di un bambino, premiai la generosità di Mateso regalandogli qualche altro quaderno per i suoi studi futuri. Che bella lezione per tutti noi anche oggi!



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