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Le storie che contano davvero, Il trevigiano p. Pio Pozzobon

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I defunti ci ricordano il significato ultimo della nostra vita, mentre il loro esempio rafforza le nostre convinzioni di fede. Sollecitati dall’affetto dei parrocchiani di Fanzolo verso il loro missionario, di cui conservano un vivo ricordo, rileggiamo insieme la storia di padre Pio.

È un testimone della chiesa missionaria.

Il 25 luglio scorso, ricorreva il 50° anniversario della morte, a soli 51anni di età, di padre Pio Pozzobon. Era nato a Fanzolo di Vedelago, in provincia di Treviso, il 30 giugno 1904. I parenti, il parroco e i parrocchiani lo ricordano con venerazione. Il 10 febbraio 1990 hanno voluto trasportare i suoi resti mortali nel cimitero della loro parrocchia, dalla tomba saveriana di Parma. Il suo esempio ispiri nuove generazioni di cristiani a impegnarsi nell’annuncio del vangelo. 

Davvero un giovane “pio”

Padre Pio aveva corrisposto pienamente alle aspettative del suo nome. La pietà è la virtù che mette in evidenza un rapporto intimo con Dio. Lui l’ha praticata con la sua vita, generosamente donata nel servizio al regno di Dio nel mondo. A soli 14 anni, a guerra finita, era entrato tra i saveriani a Parma, accolto dal fondatore mons. Conforti e da padre Giovanni Bonardi, allora rettore della comunità.

Aveva fatto molto bene il noviziato alla vita religiosa, rivelando una profonda interiorità. A vent’anni era divenuto saveriano, il 58.mo missionario dall’inizio dell’istituto. Ordinato sacerdote il 30 marzo 1929, aveva insegnato nella casa apostolica di Poggio S. Marcello, vicino ad Ancona, nella Chiesa di S. Pietro a Parma. Poi, il 30 settembre 1931, aveva ricevuto il Crocifisso del missionario partente, assieme ai confratelli p. Poli, p. Vaccari, p. Sinibaldi e p. Frassinetti Mario. Era stata l’ultima celebrazione di partenza presieduta dal beato Conforti, che li inviava a Loyang, in Cina.

Missionario dovunque

Era tornato in Italia nel 1937, per partecipare al terzo capitolo generale della congregazione. Trattenuto in patria per dieci anni, come insegnante al liceo e confessore in noviziato, era attento alle sorti della Cina, dove era esplosa la guerra civile. Scriveva all’amico don Primo: “I cinesi perdono e il fronte va sempre più trasportandosi nelle nostre missioni... Il Signore non mi ha ritenuto degno di stare trepidante con i trepidanti, in mezzo alla mischia, dove è più forte il bisogno di sostegno, di incoraggiamento, di sangue rivelatore”.

Era poi ripartito per la Cina su un mercantile di fortuna, il 12 dicembre 1947. Solo una breve sosta tra gli orrori della rivoluzione maoista, inclusa la prigione e l’espulsione. Il 6 luglio 1951, padre Pio era già in Indonesia, nell’’isola di Sumatra, per fondare una nuova missione a Padang, insieme ad altri sette confratelli.

Trasfigurato nella malattia

Ma la salute non lo resse nel nuovo campo di lavoro. Uno strano malessere l’aveva colpito (fu poi diagnosticato un tumore infrapolmonare) ed era dovuto rientrare in Italia per via aerea: una misura eccezionale e costosa per i missionari, in quegli anni cinquanta!

Passò visite mediche a Salerno, Roma e Parma. “Il suo corpo si assottigliava sempre più, ma aumentava la trasparenza della sua serenità”, scriveva p. Grazzi. Mentre i saveriani pregavano il beato Conforti per la sua guarigione, lui si preparava a morire. Tutti lo stimavano un uomo buono.

Scriveva ancora p. Grazzi: “Devoto, regolarissimo, soave di fede, quasi anima senza peso di carne. Intelligente, istruito, senza boria, pronto, senza iattanza, egli porta via d’attorno a noi un altro raggio del primo spirito saveriano, una forma cavata dal cuore del fondatore. Innamorato delle anime e dell’apostolato tra i non cristiani, vi si preparò con impegno. Chi lo rievoca negli anni di Cina lo chiama ancora santo”.

“È serenamente spirato nel bacio del Signore, alle prime ore del 25 giugno 1955, dopo aver edificato tutti con la sua pietà”, aggiungeva p. Giovanni Gazza, allora superiore generale.

E padre Bonardi, che lo aveva accolto ragazzo, concludeva: “Pregherà per noi di sicuro”.



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