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LA PAROLA
Poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: “Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto”. Detto questo esclamó: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!”. I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: “A voi è dato conoscere i misteri del Regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano”. Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio... (Lc 8,4-11).

È la prima volta che Gesù ricorre a una parabola per parlare alla folla che lo segue numerosa. Tant’è che Luca, tra la parabola e la sua spiegazione, sente il bisogno di chiarire perché Gesù si serva di questi racconti immaginifici, pieni di simboli quotidiani e di finali inaspettati.

Una prima risposta la dà lo stesso Gesù: i misteri del Regno di Dio non sono comprensibili, forse neanche comunicabili, percorrendo la sola via del ragionamento logico e dottrinale. C’è però un motivo ulteriore, meno ovvio, eppure ricco di sviluppi: il Regno “avviene” attraverso la parabola; avviene nel momento in cui diventa racconto; avviene quando chi l’ascolta lascia penetrare nel cuore quelle parole così da diventare un personaggio che ne porta avanti la trama.

Non è fortuito che la parabola del seme sia la prima a essere narrata. Chi non si lascia attrarre nel suo dinamismo, non avrà la chiave per entrare nelle seguenti: “Il seminatore uscì a seminare e, mentre seminava, il seme cadde...”. È vero che Luca sposta subito l’accento sul seme e sull’esito che avrà a seconda dei terreni, tuttavia senza l’iniziativa del seminatore il seme sarebbe rimasto inerte. La parabola si chiude con un pressante invito: “Chi ha orecchi per udire, che ascolti!”, tre termini che hanno tutti a che fare con l’ascolto. E quando, subito dopo, Gesù spiegherà perché alcuni terreni non hanno dato frutto, il verbo che ritornerà sarà sempre quello: “alcuni hanno ascoltato, ma...”; lo stesso varrà per il terreno fecondo, il cuore “buono e perfetto” che, dopo avere ascoltato la parola, l’ha custodita e ha prodotto frutto nella perseveranza.

Come non sentire qui l’eco dello Shemá, dell’Ascolta, Israele! porta d’entrata dell’intera Scrittura? Ode solamente colui a cui è rivolta una parola. La Bibbia va ancora più in là: la creazione, l’essere umano, cominciano a esistere solo quando Dio decide di rivolgere loro una parola: “Disse... e fu”; “Adamo, dove sei?”. È un Dio che parla il Dio della Scrittura, che crea comunione nella parola. Non chiede ancora nulla, se non l’apparente passività di essere ascoltato. Prima ancora che sorga l’impegno a compiere ciò che egli suggerisce, c’è il difficile sacrificio dell’ascolto, lasciare che scenda dall’alto il seme a cui la terra farà da grembo. Poi, quel grembo, a volte germinerà in dialogo, altre, invece, diventerà la tomba della parola e della relazione.

Se all’origine dell’essere umano non c’è ancora la fede, le opere o la preghiera, ma l’ascolto, come può non esserci l’ascolto nel principio fondante la comunità ecclesiale, terreno che si auspica essere fecondo? Ancor prima del Comandamento, c’è l’atto di culto dell’ascolto: ascolto di una Parola che cade anzitutto dall’alto e poi si scinde in molteplici parole che sorgono dal basso, semi che germogliano da una umanità senza confini o spazi privilegiati.
A qualunque Chiesa è chiesto di ascoltare prima di comandare, prima di dare risposte a domande che non ha potuto cogliere nella loro reale portata. “Dammi un cuore capace di ascolto”, chiese a Dio il grande re Salomone all’iniziare il suo regno.



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