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La lezione di vedere la vita con speranza

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Elisa Silva Sanchez, saveriana messicana, ricorda i quasi quindici anni vissuti nella Repubblica Democratica del Congo nei tempi difficili delle guerre.

Con il popolo congolese ho vissuto un tempo di sofferenza, ma anche di resilienza, di capacità di far vincere la vita in mezzo alle situazioni più tragiche. Dopo le sofferenze e le fughe a ripetizione a causa dei gruppi armati che saccheggiavano e distruggevano interi villaggi, la gente tornava ed era capace di risorgere ancora.

Si vive insieme, li si accompagna, li si vede fuggire e talvolta si fugge con loro. Poi si torna, si ricostruisce, torna la vita, la gioia, il canto: ho vissuto con loro in un continuo Mistero Pasquale. Mi hanno insegnato a vedere la vita con speranza, a credere che si può rinascere anche dalle situazioni più drammatiche.
Nella parrocchia di Luvungi, nella Pianura della Ruzizi, nel Sud-Kivu, ho avuto la fortuna di lavorare con bambini, adolescenti e giovani, nella scuola e nella pastorale, ed è stato lavorare nel settore della vita, della speranza. Ho cercato di aiutare i giovani a mettere in risalto il positivo in loro: il desiderio di studiare, di essere qualcuno, di sposarsi bene. Ho cercato di incoraggiarli a cercare nuove vie, ad essere critici davanti alla realtà, aperti al mondo, ai valori che sono umani prima ancora che specificamente cristiani.

Lavorando con loro, ho sentito di toccare con mano il futuro di un popolo. In particolare, ho sempre avuto a cuore che le bambine potessero studiare. Quando sono arrivata a Luvungi, nel 1995, la maggioranza degli alunni era maschile; quando ne sono partita, alla fine del 2012, erano metà maschi e metà femmine e c’erano già delle donne insegnanti. In quegli anni, la gente faceva un vero pasto solo alla sera, al ritorno dai campi. L’alimento base è la polenta di manioca, con una salsa e, se possibile, con qualche pesciolino o pezzettini di carne. Solo nelle feste o quando ci sono visite importanti, chi può mangia il pollo o la capra.

Lo Stato non fornisce assistenza sanitaria gratuita. La famiglia si cura con il poco che guadagna dai campi e dal piccolo commercio. Anche la scuola era largamente sulle spalle dei genitori. I bambini possono andare con vestiti stracci tutta la settimana, però la domenica si vestono a festa e dicevano a noi: “Perché vi vestite come tutti i giorni?”. Ci hanno insegnato a valorizzare i segni. Aver vissuto tanti anni con queste persone concrete, con la loro storia, la vita, le speranze, i desideri di vivere meglio, di conoscere il Signore, ha fatto sì che questo popolo sia per me il mio popolo.

Ora vivo in Messico in un tempo in cui il popolo messicano sta soffrendo molto. C’è quasi una guerra nascosta. Tanta gente è uccisa, sparisce, i diritti sono calpestati e si ripetono storie come quelle del Congo. Sento ancora di vivere una situazione in cui non riusciamo a dare risposte concrete alla sofferenza che comporta il vivere in una subcultura, dove il narcotraffico e la corruzione dettano legge, i gruppi organizzati di tipo mafioso sfruttano e ammazzano giovani, bambine, bambini, dove i migranti che attraversano il Messico sono venduti o vengono venduti i loro organi, dove ci sono i traffici in cui autorità e trafficanti si mescolano, per interessi economici. A ciò si è aggiunto il dramma della pandemia.

Come il popolo congolese, anche quello messicano vive la resilienza, vuole andare avanti. Uno dei compiti che sento molto forte è il ministero di consolazione: ascoltare, essere presenti, accompagnare, essere solidali nel dolore e nella sofferenza della gente. Questo può cambiare il cuore delle persone, può aiutarci tutti a camminare insieme, a creare una sensibilizzazione affinché i diritti umani siano rispettati, e può aiutare anche, come il Samaritano, a lenire le ferite, spesso molto profonde.



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