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La fede di chi fa il primo passo

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“Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male.  A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate di ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete i figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,27-35).

Da quando ho preso questa pagina tra le mani, non faccio che rigirarla, senza pace. Forse perché in altri tempi ne avrei tratto una buona esortazione ad amare i nemici. “Cosa impossibile, se non a Dio”, avrei aggiunto. Eppure, non riesco a rappacificarmi del tutto con questa conclusione. Forse perché nessuno mi ha ammazzato un figlio; nessuno mi ha sputato addosso per colpa della razza; nessuno mi ha torturata prima di buttarmi nuda su un barcone. Perché, anche solo al pensiero di essere sfiorata da queste tragedie, mi esce un grido di disperazione e sento che non ce la faccio a chiedere a nessuno di amare il nemico. Eppure, qualcuno l’ha fatto: Gesù. Molti l’hanno fatto: invisibili ponti che hanno tenuto in piedi il mondo.

C’è chi considera queste parole di Gesù delle esortazioni che completano il discorso delle beatitudini. Ma sono ben più di pie esortazioni. Qui è racchiusa l’unica possibilità di vita del mondo. Se c’è un povero è perché qualcuno è stato ingiusto; se c’è un affamato è perché altri si sono rimpinzati di beni; se uno piange, da qualche parte c’è un aguzzino; se uno viene odiato è perché c’è chi crede che togliendolo di mezzo staremo meglio. E quasi mai è il boia chi si converte. Quando si vivono situazioni di estrema sofferenza, dice il filosofo Roberto Mancini, c’è il pericolo di credere che al dolore seguirà solo altro dolore, alla morte altra morte. Come se non tanto al male, ma alla vita in sé non ci fosse rimedio. Si è così gettati in preda a un senso di solitudine, d’abbandono assoluto, a un buio pari a quello del venerdì Santo.

Ma può anche accadere, paradossalmente, che chi è più debole “sprigioni una sua forza, chi si sentiva solo ora si preoccupa del bene altrui, chi era inconsolabile diviene consolazione, chi era disperato diventa luce per gli altri”. Solo per chi non ha speranza è data la speranza. Soltanto grazie a chi era privato di tutto, anche della capacità di credere nel bene, in Dio, e ha continuato ad amare, l’avvenire diventa di nuovo buono e credibile. Si tratta sempre dell’ardua fede di chi fa il primo passo, di chi alla violenza risponde con il perdono, con un gesto di pace.

“Una pace futura potrà essere veramente tale solo se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore. Se non è chiedere troppo - scriveva Etty Hillesum, ebrea olandase uccisa ad Auschwitz nel 1943 - è l’unica soluzione possibile; sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra”. Il cuore pensante della baracca, come si è definita, seppe sconfiggere l’inferno in terra.



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