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Un'esperienza in Congo

Erano soliti pescare insieme nel lago Tanganika. Gettavano in acqua un filo di refe lungo due metri; ad un capo del filo avevano fissato una spilla a fermaglio aperta. E i pesciolini abboccavano. Lungangé e Mukosakwabo avevano realizzato quell'amo rudimentale durante le vacanze, prima di frequentare la sesta elementare. E non finivano mai di parlarsi. Ma quali discorsi intercorrevano tra i due amichetti è difficile dirlo. Lungangé era cristiano e Mukosakwabo animista.

Certamente Lungangé deve aver raccontato all'amico quanto avveniva alla missione, distante cinque chilometri, con la chiesa in canne di bambù. Al pomeriggio, i venti alisei si alzavano gagliardi dal lago e riempivano di polvere e di sabbia quel semplice luogo di preghiera. I cristiani, stanchi di ripulirla ogni giorno ripetevano: "Non è bene che Dio abbia una casa più povera delle nostre capanne di fango. Almeno le nostre capanne ci riparano dalla polvere e dalla sabbia; Dio invece rimane senza protezione".

Il capo dei cristiani ribadiva invece: "Il nostro problema non è quello di piazzare in mezzo al villaggio una chiesa in cemento. Bensì quello di cessare di vivere separati come le canne di bambù, una accanto all'altra, nel muro della chiesa. Viviamo uniti tra di noi, o neppure la nuova chiesa servirà a niente".

Alla fine era prevalsa l'intenzione di costruire la chiesa in cemento, perché rimanesse pulita e perché testimoniasse il proposito dei cristiani di vivere legati tra di loro, così come i blocchi della nuova costruzione erano cementati tra loro.

Per mettere in atto un simile proposito, ogni cristiano avrebbe sostenuto i sacrifici necessari per offrire il proprio mattone e divenire pietra viva; gli uomini si sarebbero privati della birra di banane per racimolare il corrispondente di cento lire; le donne avrebbero rinunciato a masticare tabacco per offrire il loro mattone. La chiesa uscì presto dalle fondamenta, e la gente veniva a vederla e a scambiarsi commenti di soddisfazione.

Ed ecco un giorno Lungangé e Mukosakwabo arrivarono alla missione, la mano nella mano: "Padre il mio amico Mukosakwabo desidera essere battezzato. Non preoccuparti gli ho spiegato tutto io, perché era molto curioso e voleva sapere tutto e subito. Ce l'ho messa proprio tutta e credo che tu lo possa proprio battezzare".

Effettivamente Lungangé, malgrado i suoi dodici anni, era stato più bravo di tanti catechisti più abituati di lui ai discorsi di religione. E Mukosakwabo ci stupì per quanto aveva appreso. Ma ciò che di lui ci impressionò maggiormente fu la sua duplice determinazione: "Padre, domando di cambiare il mio nome. Un battezzato non si può chiamare col nome di

Mukosakwabo, perché significa "È colpa loro" e io voglio che nessuno si senta in colpa perché io esisto. E poi desidero versare il corrispondente di una pietra per ricordarmi di esser stato battezzato l'anno in cui i cristiani avevano deciso di edificare, insieme, la chiesa".

Al di là dei propositi espressi da quel ragazzino dagli occhi neri e vivaci, noi ci chiedevamo come avrebbe fatto un ragazzo della sua età a racimolare il corrispondente di cento lire: i soldi erano una cosa che riguardava solo gli adulti. E un ragazzo poteva arrivare a vent'anni prima di vedere tanti soldi in una volta sola. Ma quel meraviglioso figlio d'Africa aveva in testa un piano che vale la pena di raccontare.

Cominciò col trattare con le donne del villaggio. Lui si sarebbe offerto di trasportare al mercato una cesta pesante, carica di radici di manioca, per 7 chilometri; domandava un compenso di dieci lire per due trasporti. Le donne trovarono che la richiesta era un po' troppo esosa. Ma, alla fine, qualcuna accettò, allettata dal sollievo che le veniva.

Quando Mukosakwabo poté disporre dell'equivalente di dieci lire acquistò una scatola di fiammiferi di legno. A giorni alterni, il mattino andava a sedersi sul ciglio della strada. Divideva i cento fiammiferi della scatola in dieci mucchietti. Dieci fiammiferi a lui costavano una lira e lui li rivendeva a due lire. Una scatola di fiammiferi costava dieci lire e lui ne guadagnava dieci.

Per guadagnare le novanta lire che gli mancavano, tenne aperto il suo "commercio", per più di un mese. Il pomeriggio, quando arrivavano il vento e la polvere, lui era là. La sera era ancora là, senza aver mangiato nulla. Fu puntuale a versare il contributo per la pietra da inserire nella costruzione della chiesa; come pure fu puntuale la notte del Sabato Santo, insieme agli altri 234 catecumeni. E quando l'acqua di rigenerazione scese su di lui, adottato come figlio di Dio per sempre, anche i suoi compagni e le sue compagne di classe erano presenti: un gruppo di monelli, musulmani, protestanti, animisti, cattolici, ammirati per quanto Mukosakwabo aveva fatto per sigillare la sua pietra nel muro della chiesa.

Lui aveva spiegato loro di aver scelto il nome di Pierluigi per non "incolpare più gli altri con la sua esistenza" e per consolare una famiglia, in Italia, che domandava di perpetuare il ricordo di un figlio morto troppo presto.

A questo punto la storia di Pierluigi, l'africano, avrebbe potuto rientrare nella normalità. Chi l'ha vissuta l'avrebbe portata nel cuore come la prima storia di un ragazzo africano che ha saputo inventare un gesto esemplare per la sua chiesa.

Ma due mesi e mezzo più tardi, a mezzogiorno, qualcuno venne alla missione per informarci sul cattivo stato di salute di Pierluigi. Decisi di sfidare il calore del sole, e corsi a visitare il mio giovane amico. Vedendomi arrivare, mi sorrise, mostrando una bocca inaridita. Si trattava di un massiccio attacco di malaria cervicale. Occorreva un medico per stabilire se la sua vita fosse realmente in pericolo.

Ai genitori, impietriti, chiesi: "Lasciate che lo porti all'ospedale". Il medico confermò immediatamente: "È grave, ma proprio in questi giorni abbiamo ricevuto una nuova medicina che mi assicurano essere efficace. Purtroppo costa 20.000 lire. Se qualcuno ne copre la spesa, possiamo salvare questo ragazzo". Lo rassicurai: "Proceda e faccia anche l'impossibile per salvarlo".

Il lunedi mattina, interrogai i ragazzi e le ragazze dei villaggi circostanti che arrivavano alla scuola della missione: "Avete notizie di Pierluigi?". "Sappiamo che tu hai assicurato al medico di coprire le spese dell'ospedale. Ma consigliaci cosa possiamo fare per aiutarlo a guarire, perché gli vogliamo bene".

Erano quasi cinquecento i ragazzi e le ragazze che frequentavano la scuola e gli insegnanti erano dalla parte dei loro scolari. Cominciai col proporre: "Vediamo insieme quali gesti e quale tipo di aiuto retribuito può offrire un gruppo così numeroso di ragazzi".

Le ragazze di quinta elementare furono le prime a parlare" "Noi ci impegniamo ad andare fino al fiume ad attingere l'acqua, per aiutare le mamme con bambini piccoli. Possiamo andarci mattino e sera. Ma per ottenere qualche soldo dovremmo andarci almeno per quindici giorni". Quelle di sesta si offrirono per aiutare le donne a zappare la manioca. Ma anche a loro occorreva un certo periodo di tempo per avere un riscontro. A quel punto anche la fantasia dei ragazzi cominciò ad accendersi: "Noi potremmo andare nella foresta a tagliare la legna per il fuoco, legarla in fascine e venderle al mercato.

Potremmo aiutare gli uomini ad impastare il fango per rivestire i muri delle capanne; potremmo tagliare le erbe alte da mettere su tetti".

Quel mattino a scuola non si parlò d'altro e ci demmo appuntamento dopo due settimane nella chiesa di canne di bambù per mettere insieme i risultati della loro giovane solidarietà. La missione avrebbe integrato con la cifra mancante. Ma tutti avrebbero dovuto pregare il loro Dio perché guarisse Pierluigi.

All'appuntamento fissato non mancò nessuno: ragazzi musulmani, cattolici, protestanti, animisti. I rappresentanti di ogni classe raccontarono il gesto che avevano fatto e come la gente aveva reagito scoprendo i propri figli così generosi. Consegnarono, avvolti in una foglia di banana, i risultati economici della loro generosità. Alla fine tra la commozione generale venne raccolto qualcosa come 1.500 lire! Gli insegnanti, dal canto loro, avevano pensato di acquistare un cappello, perché il sole non ferisse più la testa di Pierluigi l'africano.

La sensazione era che tutti si rendessero conto d'aver contribuito a salvare un loro amico, con la propria generosità. Forse anche il Pierluigi italiano, aveva contribuito a cambiare significato al nome "Mukosakwabo": non più è colpa loro, ma salvato da loro.



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