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Il libro: “L’Italia, Paese delle armi”

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Quanti italiani hanno una licenza per armi? E quante sono le armi regolarmente detenute nelle case? Il clima di insicurezza che da alcuni anni, si dice, sia diffuso in Italia sta inducendo i cittadini ad armarsi? O gli italiani possedevano più armi qualche anno fa? Domande semplici, alle quali ci aspetteremo di trovare facilmente risposta con una ricerca su internet. Invece, sono interrogativi che restano per lo più insoluti perché non esiste in Italia un rapporto ufficiale che documenti il numero di legali detentori di armi e delle armi possedute con regolare licenza.

È uno dei tanti vuoti di informazione, una vera “zona grigia”, che svela il volume di Giorgio Beretta, “Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata”, pubblicato lo scorso ottobre da Altreconomia. Un libro-inchiesta sul settore delle “armi comuni” (revolver, pistole semiautomatiche, carabine, fucili a pompa e da caccia) che vengono detenute dai civili per la difesa personale e abitativa, per il tiro sportivo e le attività venatorie. Ma anche un’indagine sulle armi ad uso militare, le cui esportazioni dall’Italia sono diventate negli anni sempre meno trasparenti tanto che oggi è quasi impossibile sapere con certezza - se non grazie all’impegno di rari ricercatori come l’autore - a quali Paesi sono vendute, soprattutto nei casi di regimi autoritari e repressivi.

Armi comuni di cui, stando alle informazioni fornite dall’Associazione nazionale produttori di armi e munizioni (Anpam), l’Italia sarebbe il primo produttore europeo tanto che il settore viene descritto come una “eccellenza del made in Italy”. Una produzione rinomata anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, che rappresentano il principale mercato di esportazione, dove le armi italiane alimentano quella corsa ad armarsi - una vera paranoia collettiva - da parte di ampi gruppi della popolazione, soprattutto a fronte di annunci di restrizioni a seguito di efferate stragi.

Armi il cui valore economico e occupazionale è spesso sopravvalutato. Comprese le munizioni, la produzione di armi comuni in Italia non supera infatti i 600 milioni di euro (pari allo 0,03% del Pil), cioè tanto quanto la produzione di giochi e giocattoli; mentre gli occupati nelle 232 aziende del settore sono 3.330 cioè lo 0,1% di tutti gli addetti dell’industria manifatturiera. Niente di straordinario dunque: la produzione e l’occupazione del settore delle armi comuni sono quanto mai marginali nel contesto produttivo italiano.

Armi il cui impatto umano è devastante non solo all’estero ma anche in Italia. Come ha documentato il “Rapporto del Senato sul femminicidio” sulla base delle sentenze giudiziarie, negli anni 2017 e 2018, in Italia, ben 31 femminicidi su 192 (pari al 16,1%) sono stati commessi da persone che erano in possesso di regolare porto d’armi: persone che dovrebbero essere affidabili e non dovrebbero costituire un pericolo. Invece, se si considera che i possessori di licenza di porto d’armi non superano l’8% della popolazione adulta italiana, appare chiaro che questa limitata porzione di popolazione rappresenti un potenziale pericolo in quanto è all’origine del doppio della percentuale di femminicidi che si verificano in Italia.

Sono dati e informazioni che dovrebbero sollevare l’attenzione del mondo politico che invece, per la gran parte, è silente quando non è connivente con le lobby delle armi. La cui influenza si sta facendo sempre più pervasiva anche in Italia. Anche per questo, le proposte di una regolamentazione più rigorosa del settore e di maggiori controlli sui legali detentori di armi che da anni avanziamo insieme a tante associazioni della società civile - proposte che il volume sapientemente riassume - restano per lo più ignorate. Continuando ad alimentare i falsi miti e le zone grigie che avvolgono e proteggono il settore delle armi in Italia.

Il libro può essere richiesto alla redazione di Missionari Saveriani (giornale@missionarisaveriani.it) al costo di 15 euro a copia, spedizione gratuita.



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