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Da Priverno alla favela di Belém

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Nato a Priverno, p. Nicola Masi, mio zio, è morto il 12 marzo nella casa Madre dei saveriani a Parma, dove era tornato a vivere da qualche tempo. Una vita lunga la sua e tutta dedicata alla missione. Aveva 92 anni, ma una mente ancora vivace, arguta e brillante.

A 11 anni conosce un saveriano reduce dalla Cina che va a Priverno per sollecitare i giovani a scegliere il suo stesso cammino. La cosa fa breccia nel cuore di Nicola. Il parroco riceve l’approvazione della mamma, Filomena D’Arcangelis, così Nicola inizia il suo lungo viaggio. Si laurea in teologia e poi in diritto canonico all’università Gregoriana. Mentre è a Roma, diventa assistente spirituale degli scout del quartiere Parioli. Conclusi gli studi, va a Parma, dove si occupa di tutti i missionari sparsi nel mondo (Procura delle missioni), e anche di mantenere i ragazzi che decidevano di diventare missionari. “Non ho mai dovuto chiedere nulla - diceva - erano sempre le persone a donare spontaneamente”.

Viaggia molto, soprattutto in Scozia e Germania. Conosce tante persone e molte famiglie tedesche, che adottano ognuna uno studente per accompagnarlo negli studi. Pullman pieni di tedeschi scendevano a Parma per stare con i loro “ragazzi”. Zio Nic si definiva un “inquieto”… Infatti, era sempre pieno di idee. Le iniziative da lui avviate non si contano. A Parma, per esempio, riesce a riunire un gruppo di medici che aiutavano chi non poteva permetterselo.

Ha il compito di informare tanti confratelli dei cambiamenti della chiesa (erano gli anni del Concilio Vaticano II). Si sposta dall’Asia all’America Latina, passando per l’Africa. Poi, ecco la partenza per la missione, in Brasile. Lui conosceva già molte lingue, a cui aggiunge il portoghese. “Ma ho dovuto imparare ben presto anche la lingua della vita”, era solito dire. Arriva a Belém, in Amazzonia e riprende a insegnare teologia morale e diritto canonico all’università.

Un giorno, percorrendo un viottolo, arriva all’inferno. Di fronte a sé un’intera palude di palafitte, tantissima gente ammucchiata e un mare di scoli d’acqua putrida. Era la favela di Belem, abitata da 30mila persone. S’informa della loro vita e gli chiedono di restare. Lui ammutolisce, è confuso, ma poi accetta. Con pochi soldi acquista una baracca e per tanti anni dorme su un’amaca appesa al soffitto. Diventa un abitante della favela, senza acqua potabile, elettricità e con le fogne a cielo aperto.

Quando una mamma vede il suo bambino di un anno e mezzo affogare nella melma, p. Nic decide che è ora di fare qualcosa. Va dal sindaco, che interviene facendo sistemare tutti i ponticelli di legno. È l’inizio delle conquiste. Poco dopo, arrivano anche luce e acqua potabile. Una vera bonifica!
Zio Nic rimane lì 18 anni. In tanti lo aiutano con contributi dall’Italia, dalla Germania e ovunque avesse instaurato nel tempo rapporti di amicizia. I suoi scout pariolini danno vita a una Onlus. Riesce a far costruire tre centri comunitari, una chiesa e un centro per corsi professionali. “È stata la salvezza per tanti giovani”, ripeteva sempre
[fine prima parte – Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2020].



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