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Cosa c’è dopo uno sbarco?

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Adriana Marsili ha lavorato prima negli Stati Uniti, poi in Sierra Leone (dove è stata prigioniera dei ribelli per circa due mesi insieme ad altre sei sorelle), poi in Camerun, quindi in Italia (Cava de’ Tirreni e Modica). La sua nuova destinazione è il Messico.

Dopo il naufragio al largo di Lampedusa del 3 ottobre 2013, gli Istituti missionari italiani (CIMI) hanno deciso di essere presenti in questo contesto con una comunità intercongregazionale, segno di comunione nella diversità, per offrire percorsi di formazione all’accoglienza per le comunità presenti sul territorio e tessere relazioni sincere e approfondite con gli immigrati. Resisi conto che Lampedusa è solo il luogo del primo e per lo più drammatico approdo, hanno pensato di concentrarsi su quanto deve far seguito a questo momento: l’accoglienza, la protezione, la promozione e l’integrazione. La diocesi che ha aperto loro le porte è stata quella di Noto e la città di Modica in particolare.

A maggio e giugno 2018, sono stata inviata a Modica a integrare la comunità intercongregazionale, composta da quattro missionari - due padri e due suore - una delle quali si era dovuta assentare per motivi di salute. Mi sono sentita subito bene accolta. Con loro, dediti a diversi servizi ai migranti e introdotta dal prof. Maurilio Assenza, allora direttore della Caritas diocesana, ho potuto vivere un tempo molto intenso di incontro con giovani migranti, nei diversi Centri di accoglienza per lezioni di italiano e momenti di convivialità e incontrare studenti di varie classi di liceo, comunità, famiglie del posto, gruppi.

Ho concluso che il servizio reso dai missionari a Modica, come pure la modalità di presenza, potrebbe essere realizzata in ogni altra grande città d’Italia. Allo sbarco deve far seguito l’accoglienza e l’integrazione. Avendo alle spalle l’esperienza della riabilitazione dei ragazzi soldato in Sierra Leone, dico che l’amore, la cura, la tenerezza devono caratterizzare l’approccio ai migranti, persone spesso umiliate e portatrici di ferite.

Nel settembre dello stesso anno sono stata di nuovo inviata a Modica, con un mandato di tre anni. “Operiamo in una realtà liquida che muta col mutare della situazione e della politica”, scrivevo al mio rientro in Sicilia. “A causa del Decreto Sicurezza, i Centri di accoglienza per minori qui a Modica sono già passati da sette a cinque, e un altro chiuderà il mese prossimo. I ragazzi vivono nella paura dell’espulsione, dei trasferimenti e della minaccia di rimpatrio. Alcuni sono già fuggiti dai Centri. Diventano allora clandestini, ma non lo sono, dal momento che allo sbarco vengono tutti sottoposti a regolare procedura di identificazione…”.

Oggi, i sette Centri di accoglienza per minori a Modica non ci sono più; rimane solo, e per poco, uno degli SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Modica tuttavia, e direi l’intera Sicilia, ha un’immigrazione già stratificata dal Magreb (marocchini e tunisini); aumentano i migranti dal Bangladesh e dall’India, dediti soprattutto all’allevamento di bestiame, e dal Perù.



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