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Chiamati alla missione: Senza sapere dove andava

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Abramo come modello della vocazione missionaria è… quasi un luogo comune: “Esci dalla tua terra e va”, dice il ritornello di un noto canto di chiesa. Ma a ben pensarci, la partenza di Abramo ha poco di missionario, almeno di quel “missionario” che abbiamo in mente, dell’immagine che spesso ce ne facciamo: uno che ha una certezza, una verità interamente acquisita, e che va a comunicarla ad altri.

Dio e l'ignoto. Abramo, invece, ha Dio alle spalle e l’ignoto davanti a sé. Nella lettera agli Ebrei (11,8), leggiamo: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava”.

La cosa più sorprendente è che Dio stesso gli è ignoto. Che cosa aveva Abramo da annunciare agli altri? Niente di niente.

Gli studiosi ci dicono che egli, lasciando il suo territorio, lascia anche gli dèi locali per credere in un Dio che è senza nome e senza luogo, perché sta sempre davanti; un Dio che è cammino; che è novità, imprevisto. Solo camminando con lui, affidandosi al mistero della sua chiamata, lo si conoscerà.

Restare aperti. L’originalità della religione ebraica (che ha in Abramo il suo inizio) sta proprio in questo: il suo Dio è il Dio della storia, “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”, come dice Gesù. Vuol dire che non è un Dio racchiuso in una definizione, ma che si incontra restando aperti a ciò che avviene nella propria vita.

Il relativo e - ne siamo certi - temporaneo fallimento della religione ebraica è consistito in questo: è rimasta prigioniera del proprio passato; non ha accolto la novità di un Dio che si è manifestato come uomo e uomo crocifisso. La “tradizione degli uomini” è stata privilegiata rispetto al volto d’amore che egli ha preso per riabbracciare la pecorella perduta, l'umanità smarrita.

È un pericolo anche per la fede cristiana quello di restare legati al passato, a un cristianesimo che ci pare di conoscere e che avrebbe esaurito tutte le possibilità del vangelo. Così tradizioni e costumi religiosi, identità storiche… diventano assoluti da difendere, mentre l’unico assoluto è la sua Parola che guida al futuro.

La vocazione al futuro. La vocazione missionaria è, per ogni cristiano, vocazione al futuro; più esattamente, è la vocazione a scoprire tutta la portata del vangelo accogliendo l’ignoto. Se ci pensiamo bene, il domani - nostro e del mondo - è il paese più sconosciuto. E in questo paese, da che Gesù è risorto, Dio regna.

Via allora tutte le paure, via tutte le esitazioni a cambiare, via tutti gli attaccamenti a “ciò che si è sempre fatto”. Il nostro Signore è un Dio che viene, è la promessa che sta sempre davanti. Anche quando sembra chiedere di uccidere un figlio, anche quando lascia uccidere il proprio Figlio, egli salva il domani. E lo salva con te, se rispondi alla sua voce e lasci le sicurezze e gli spuri amori che ti legano alla terra.

Il privilegio di chi è missionario in senso stretto, sta proprio nel portarsi in paesi in cui il cristianesimo è, in qualche modo, tutto da costruire; e lo si può costruire solo affidandosi alla Parola e ai “materiali” che quei paesi forniscono: ricchezze e povertà, culture e religioni, lotte e speranze di quei popoli.

Così il missionario indaga di nuovo il vangelo e ne scopre il mistero in meraviglie nuove. Questa è la testimonianza che il missionario ci dà e che fa tanto bene alla nostra fede.



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