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Chiamati alla missione: Missionario, solo e con tutti

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Padre Romano Bottegal, nato a San Donato di Lamon nel 1921, a 25 anni diventò prete della diocesi di Belluno. Don Albino Luciani, il futuro Papa, era stato suo vicerettore in seminario. Qui aveva maturato la vocazione alla vita contemplativa, ma il suo vescovo, mons. Girolamo Bordignon, non gli aveva accordato il permesso per entrare in trappa.

Tuttavia, un mese prima di diventare sacerdote, obbedendo a “un impulso dello Spirito Santo”, scriveva a Roma: “Questo mio ideale spero raggiungerlo tra breve, appena ordinato sacerdote, il 29 giugno; passati 15 giorni in famiglia, sarebbe nei miei voti essere accettato”. Alla fine di luglio era già nell’abbazia cistercense alle Tre Fontane di Roma.

Dopo alcuni anni dedicati alla propria formazione di monaco e poi alla formazione di altri monaci come priore e maestro di noviziato (1946-1961), fu inviato in Terra Santa per rafforzare la comunità del monastero di Latroun. Già aveva in cuore il passaggio dalla vita monastica a quella eremitica, che realizzò in Libano dal 1965 al 1978, anno della sua morte.

L’eremita missionario

Specialmente in questi anni la sua fu una vita di grande povertà, di estrema penitenza, di continua e sublime preghiera. Ma volle che fosse anche vita di missione. Ne parlava così in una lettera alla sorella: “Sono più che contento. Qui dovrei svolgere un’opera di missione tra i musulmani: vivere non lontano da loro, più povero di loro, aiutarli amandoli, dimostrando che l’amore, la gioia non sta nell’avere tanto denaro, nelle comodità. Come dappertutto, così anche qui occorre venire ai fatti: mostrare che si vuole loro bene, che si fa loro del bene… Allora il loro cuore si apre e una luce giunge a loro. Voglia il Signore che io svolga questa missione il meglio possibile. Non dirmi, quindi, di tornare a Roma, di farmi curare… Anzitutto bisogna vedere ciò che dispone la Provvidenza. È chiaro che, almeno per ora, il Signore vuole che stia qui. E se egli vuole che stia qui, provvederà per la vita e per la morte. Tutte e due sono buone”.

Solitudine per la comunione. Della vita di Gesù, per impulso dello Spirito, padre Romano scelse questo aspetto: Nazaret o la notte sul monte. In tutta la sua vita c'è una sete di solitudine e di comunione: solitudine come condizione della comunione. È la solitudine dell’uomo di Dio, che sta con Dio per poter stare con tutti i figli di Dio, ovunque siano dispersi e “nascosti” nel mondo.

"Solitudine missionaria”, perché da essa si esercita quell’attrazione di cui Gesù aveva detto: “Quando sarò sollevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Tutto è preghiera? Si dice spesso, nel mondo missionario, che anche la vita apostolica può essere preghiera.

E a noi laici altrettanto spesso dicono che anche la vita di famiglia, il lavoro, le opere di carità possono essere preghiera. Ma la preghiera è sempre stare con Dio, parlare con Lui, accogliere la sua Parola e il suo Spirito. Tutto è preghiera, se tutto è questo! E allora sono forse necessarie, per tutti, notti di orazione e tempi di Nazaret. Altrimenti ci si disperde e nessuna comunione sussiste. Dobbiamo mantenere questo centro, perché la missione parte da lì. 

Altrettanto bello è pensare che i missionari anziani, i malati, i “pensionati della vita” e noi tutti, nei momenti di solitudine e d'impotenza, possiamo stare al centro della missione, se rimaniamo inseriti, come una spina nella corrente, nell’amore di Dio per il mondo.



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