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C'è un mondo ricco. Ma i poveri...

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Ma i poveri non ne ricevono beneficio.

Ha scritto Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia: "C’era una volta la speranza che la globalizzazione avrebbe portato benefici per tutti, sia nei paesi industriali avanzati, sia nel terzo mondo. Oggi la faccia oscura della globalizzazione è sempre più evidente. Non sono solo le cose buone a varcare più facilmente le frontiere; anche quelle cattive, terrorismo compreso, si muovono più facilmente.

Abbiamo sotto gli occhi un sistema commerciale globale ingiusto, che ostacola lo sviluppo, e un sistema finanziario globale instabile, in cui i paesi poveri si trovano ripetutamente oberati da un debito ingestibile. Il denaro dovrebbe affluire dai paesi ricchi verso quelli poveri, ma sempre più spesso va nella direzione opposta".

Per il futuro del mondo

Sono le parole di un dirigente della banca mondiale, che ha abbandonato questa istituzione quando si è accorto che essa, invece di prendersi a cuore lo sviluppo dei paesi più poveri, li caricava di pesi ulteriori. Né Stiglitz né noi auspichiamo un mondo occidentale che, come un Babbo Natale, distribuisca doni e aiuti senza chiedere l’impegno dei poveri per la loro liberazione. Stiglitz è cosciente che il futuro dei paesi poveri è nelle loro mani. Ma sa anche che senza la collaborazione intelligente e generosa del mondo sviluppato, la loro liberazione rimarrà un miraggio irraggiungibile.

Qualche anno fa, in occasione del passaggio al nuovo millennio, l’Onu aveva lanciato un programma mondiale per la riduzione del debito internazione dei paesi poveri. Per qualche tempo se ne è parlato e qualche progetto è andato in porto. Ma ora sembra che tutto sia scivolato nel dimenticatoio. Certamente la situazione interna dei paesi più poveri è condizionata dalla corruzione e dalla cattiva amministrazione, e questo complica ogni progetto di sviluppo. Ma non per questo noi abbiamo il diritto di rimettere nel cassetto questo dossier tanto importante per il futuro del mondo.

Una voce coperta e dispersa

Quest’anno ricorre il 40° anniversario di Populorum Progressio, l’enciclica di Paolo VI, tanto profetica quanto dimenticata, che dovremmo invece riprendere in mano proprio alla luce dell’attuale situazione del mondo. In essa Paolo VI aveva profeticamente affermato che "lo sviluppo è il nuovo nome della pace"; che tutti i popoli sviluppati sono responsabili dello sviluppo dei paesi più poveri. E aveva chiamato tutti a collaborare perché a tutti gli uomini, figli tutti dello stesso Padre e quindi fratelli tra di loro, fosse garantito il minimo indispensabile per vivere in modo dignitoso. La sua voce è risuonata nel vuoto ed è stata coperta e dispersa da altre voci. Ma rimane drammaticamente attuale.

Anche oggi molti - anche molti cristiani - si chiedono perché uno debba preoccuparsi di persone lontane che, anche se aiutate, sembrano non essere in grado di uscire dalla loro condizione disperata. È la domanda di Caino, che ripetiamo continuamente in risposta a quella di Dio, che ci chiede conto dei nostri fratelli: "Sono forse il guardiano di mio fratello?". Certo che lo siamo.

Volentieri o contro voglia?

Al di là delle considerazioni "cristiane", che sono decisive per noi discepoli di Cristo, sentiamo tutti che la parola di Paolo VI è vera, e che dallo sviluppo dei più poveri dipende la pace del mondo. "Contro la fame cambia la vita", diceva uno slogan di qualche decennio fa. Il nostro sistema economico mondiale, dice ancora Stiglitz, può essere modificato e lo sarà, ma "la domanda è: i cambiamenti ci saranno imposti come risultato di una crisi, o prenderemo il controllo del processo di globalizzazione?". In parole più semplici: il mondo cambierà perché lo vorrà liberamente o sarà costretto a farlo contro voglia?

Noi cristiani e noi missionari, testimoni della sofferenza di Cristo che continua nei poveri di oggi, abbiamo avuto da Gesù un comandamento nuovo: "amatevi come io vi ho amati". E ce lo ha dato come un dono. Esso corrisponde infatti al bisogno del nostro cuore di uscire da noi stessi per andare verso gli altri, riconosciuti come fratelli e sorelle. Ogni chiusura egoistica è la negazione della nostra natura di persone create a immagine di Dio. Non possiamo chiuderci in noi stessi: è a rischio la pace del mondo e il suo futuro.

La missione non è forse lavorare per "fare del mondo una sola famiglia", come dice il nostro fondatore, il beato Guido Conforti?



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