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Burundi: Hutu e Tutsi, una difficile riconciliazione

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Intervista a p. Luigi Arnoldi

È tornato a Bergamo,  per una breve visita ai familiari, p. Luigi Arnoldi, nativo di Brembate Sotto: viene dal Burundi dove lavora come missionario da parecchi anni. Attualmente svolge il ruolo di insegnante e di educatore nel "Grande Seminario Giovanni Paolo II" di Gitega. Nella intervista che segue ci aiuta a capire la difficile situazione del Burundi.

Com'è la situazione politico-religiosa del Burundi, dopo il lungo periodo di lotte tra le due etnie degli hutu e dei tutsi?

Il Burundi sta vivendo un momento cruciale della sua storia. Per la prima volta gli è offerta la possibilità di diventare un Paese normale nel consesso delle nazioni. Di fatto il conflitto burundese è esploso con l'indipendenza nel 1962. Dopo la partenza della potenza coloniale, il Belgio, il Burundi si è trovato a doversi inventare la "sua democrazia". I tentativi di dare al Paese un sistema politico che tenesse conto di tutte le componenti della società burundese sono sfociati ogni volta in un bagno di sangue.

I suoi figli migliori e meglio preparati alla gestione della cosa pubblica venivano assassinati. Spesso lasciato solo di fronte alle spinte egemoniche di gruppi di potere, il Burundi ha continuato fino ad oggi a cercare la soluzione dei suoi problemi politico-sociali nella potenza delle armi. È mancata una cultura del confronto paritario, dove ciascuno cercasse di comprendere le ragioni dell'altro oltre a difendere le proprie. È stato, come si dice, un dialogo tra sordi.

Le molte vittime della guerra hanno creato diffidenza e ostilità fino a dichiarare l'altro un nemico da cui guardarsi se non da eliminare. La soluzione al conflitto sembra vicina grazie anche alle molteplici mediazioni tra cui l'ultima quella di Mandela.

La pace sembra a portata di mano. Tutti la vogliono, anche quelli che hanno imbracciato le armi. Ma nessuno se la sente di fare il primo passo verso la giustizia, condizione indispensabile per avere la pace. Tutti hanno bisogno di essere rassicurati sul loro futuro. Quello che è successo nel vicino Rwanda, genocidio prima, e "normalizzazione politica" poi, hanno reso tutti più diffidenti gli uni verso gli altri.

La Chiesa, dall'indipendenza in poi, è cresciuta moltissimo, in quantità e qualità di vita. Essa rimane per il momento l'unica realtà capace di svolgere un lavoro di riconciliazione, quando sarà firmata la pace. Purtroppo anche la Chiesa è fatta di quelle stesse persone che vivono il conflitto politico e sociale. La paura e la diffidenza non hanno risparmiato neanche gli uomini di Chiesa.

Nessuno arriva a scegliere come responsabile una persona estranea alla propria etnia. Ognuno sostiene il proprio gruppo etnico e questo non fa che aumentare il conflitto e la divisione. I cristiani devono amare la Chiesa più del proprio gruppo etnico: amare la Chiesa non significa rinunciare alla propria dignità o appartenenza etnica; al contrario significa mettere la propria appartenenza e la propria ricchezza personale al servizio della Chiesa, famiglia di tutti i figli di Dio.

Finché il conflitto non sarà risolto, tutta la vita ecclesiale come quella politico-sociale resteranno bloccate. La Chiesa deve diventare il modello di una nuova società dove ciascuno si mette al servizio dell'altro per il bene di tutti.

Esistono ancora i campi di concentramento e zone dove non è ancora arrivata la pace?

Purtroppo, nonostante le promesse e gli accordi di smantellare i campi di concentramento, ve ne sono ancora sparsi un po' dappertutto nel Paese. Quando l'altro è visto come un nemico potenziale o reale, allora non c'è che impedirgli il nuocere chiudendolo nei campi di concentramento o impedendogli di fatto di vivere una vita normale sulle colline. Per alcuni il campo di concentramento diventa una sicurezza contro ogni forma di rappresaglia, anche se in questi campi la vita è semplicemente disumana.

La Chiesa ha potuto riprendere la sua normale attività pastorale?

Tranne che nei campi di concentramento, la vita della Chiesa ha sempre continuato abbastanza regolarmente. Ciò che ha subito le conseguenze più gravi è la convivenza all'interno della Comunità: c'è una certa difficoltà a stare insieme quando non si è dello stesso gruppo etnico. Lo sforzo e la buona volontà sono tante volte premiati da gesti di condivisione e riconciliazione proprio là dove prima c'era chiusura e rancore.

I missionari Saveriani sono liberi nella loro attività di evangelizzazione?

Anche noi Saveriani viviamo le stesse difficoltà nell'opera di evangelizzazione come tutti gli altri operatori pastorali. Come europei siamo forse più rispettati dei preti locali, ma per alcuni gruppi di potere diventiamo una presenza e una testimonianza che dà loro fastidio.

Il fatto di essere stranieri è anche un vantaggio perché ci permette di svolgere un ruolo di mediazione tra le parti in conflitto: con noi che siamo al di fuori delle parti è più facile aprirsi alla confidenza. Rimane il fatto che di fronte all'ingiustizia non ci può essere neutralità anche se la nostra azione diretta spesso è difficile e a volte ostacolata.

Nel "Grande Seminario Giovanni Paolo II" dove tu insegni, sono molti i giovani che si preparano al sacerdozio e vivono il Vangelo della riconciliazione e della pace?

Nel Seminario teologico internazionale dove insegno e sono educatore, vi sono 140 giovani per i quattro anni di teologia. Vivendo insieme ci si conosce meglio e ci si accorge che tanti pregiudizi sono del tutto infondati. Si fa esperienza che è possibile vivere insieme e che la differenza non è un ostacolo ma un arricchimento vicendevole. Quando però nel Paese succedono fatti di sangue e scontri armati, allora riemerge la diffidenza. In questi casi bisognerebbe avere il coraggio di commentare con calma e serenità questi fatti, cercando di capire più che i colpevoli, la causa di questi fatti dolorosi..

Quali sono i progetti a cui siete più interessati voi missionari del Burundi?

Alla base dei nostri progetti sta il desiderio di servire la Chiesa del popolo burundese, cioè renderla capace di autonomia in tutti i settori. A questo ideale mirano i nostri progetti. In concreto oltre ai progetti pastorali di evangelizzazione, stiamo aiutando a ricostruire il quartiere di Kamenge nella capitale di Bujumbura, grazie agli aiuti che ci arrivano soprattutto attraverso il Card.Tonini.

Un altro settore da noi particolarmente curato è quello della costruzione di nuove abitazioni. Attualmente stiamo preparando anche i forni per mattoni, tegole e altro materiale edile. Curiamo tra i giovani e le ragazze la  formazione all'artigianato che darà loro la possibilità di un buon lavoro.

Tutto questo ci è possibile grazie all'aiuto di tanti benefattori italiani e bergamaschi in particolare. Noi siamo missionari a vita e diamo tutta la nostra vita per le missioni. A voi è chiesto il contributo della preghiera e l'aiuto concreto per poter realizzare queste opere di sviluppo. Colgo l'occasione per dirvi grazie per quanto fate per le missioni e per i missionari. Il Signore benedica la vostra generosità e vi ricolmi della sua grazia.



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