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A pochi passi dal paradiso, Il quarto piano in Casa Madre

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2009 4 Gildo1Non è passato ancora un anno da quando il superiore mi ha fatto pervenire in Bangladesh la lettera della direzione generale in cui, ringraziandomi della disponibilità, mi comunicava ufficialmente che sarei dovuto tornare a Parma per il servizio ai saveriani anziani e malati della congregazione.

Proprio in quei giorni stavo leggendo l'interessante numero di "Cem Mondialità" dedicato alla morte: una strana coincidenza! Addentrandomi in quelle pagine, nasceva spontanea dentro di me una domanda curiosa e impertinente:

chissà cosa pensano della morte i nostri missionari malati e anziani?

Quella morte "invidiata"

Potrebbe sembrare fuori luogo proporre una domanda come questa, ma non lo è per me. Dopo 23 anni di vita missionaria, tornando dal Bangladesh in Italia, in questo mondo super sviluppato, sono stato sorpreso dal fatto che, in linea con il pensiero cosiddetto moderno, della morte quasi non si voglia parlare. Anzi, non se ne deve parlare; deve essere tenuta lontano dalla mente, dal cuore, dal pensiero... La morte, si dice, fa paura. Si cerca di esiliarla nell'oblio.

Eppure, quando il 20 gennaio scorso, agli inizi della preghiera del mattino, padre Lino Pellerzi era stato, direi amorevolmente, abbracciato dalla morte, pur nella sorpresa e incredulità, c'è stata tra i confratelli presenti una sorta d'invidia. Non pochi hanno commentato: "Magari anche a me fosse concessa una morte così!".

Ritornare bambini

Di p. Pellerzi non posso dire molto. L'ho conosciuto solo in questi mesi iniziali della mia attività qui a Parma. I sintomi che di tanto in tanto mi spiegava non esprimevano paura; anzi, sembrava avessero per lui quasi il senso della premonizione. Quando un giorno gli avevo pronunciato sommessamente la parola "morte", mi aveva ringraziato di averlo fatto.

Il quarto piano della casa madre dei saveriani a Parma è una sorta di reparto o ospizio, un luogo amato da pochi! Perché negarlo? Credo che molti lo considerino, eufemisticamente parlando, l'anticamera del paradiso.

È proverbiale affermare che nella malattia e nella tarda età spesso ci si ritrova a essere come bambini. Questo dovrebbe in un certo senso far piacere, se è vero quanto leggiamo nel vangelo: "Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli".

Sarò mai capace di...

Ma è proprio questa considerazione che mi riporta alla mente alcune considerazioni lette su "Cem Mondialità". Come il bambino appena nato, anche il vecchio e il malato dipendono dall'aiuto altrui. A volte, per non dire spesso, non riescono né a parlare né a camminare né a nutrirsi da soli. Sono soltanto capaci di implorare soccorso con sommessi lamenti; ma continuano a vivere per l'amicizia, che si fonda e sviluppa soprattutto nell'appoggio e nell'aiuto degli altri. È nella vecchiaia che si ribadisce quanto la natura ci aveva già fatto capire alla nascita: l'uomo è debitore della vita, non tanto a se stesso, ma alla benevolenza degli altri.

In questi primi mesi passati a Parma, mi sono chiesto se sarò mai capace di far respirare a questi nostri confratelli anziani e malati un'aria di amore e di benevolenza; mi sono chiesto se i miei occhi riusciranno mai a essere così dolci da esprimere la dolcezza dell'anima; se le mie braccia avranno mai quella ampiezza che si ha quando si abbraccia con amore; se le mie labbra riusciranno mai a regalare un bacio di tenerezza.

Con la benevolenza divina

Mi sono chiesto e continuo a chiedermi se saprò mai donare, oltre alle meticolose cure mediche, anche un sorriso segno di gioia, una lacrima che esprima clemenza e misericordia, una parola pronunciata con voce docile.

E sempre ispirandomi a quanto letto sulla rivista del "Cem Mondialità", mi piacerebbe che i nostri missionari anziani e malati possano sentire, anche grazie a noi, che la loro vulnerabilità e fini­tezza è avvolta dalla bene­volenza divina, presente e operante nella storia come appello alla benevo­lenza umana.

Proprio in questa vulnerabilità e fini­tezza è presente lo spazio dove ognuno, facendosi carico dell'altro, scopre di essere desti­nato e nato per l'amicizia, che si fon­da e sviluppa soprattutto nel recipro­co appoggio. Scopre che ciò che accomu­na ogni essere umano, al di là delle pur innegabili differenze, è di essere ciascuno debitore del dono della vi­ta, non tanto a se stesso, quanto alla benevolenza altrui.

Concludendo, non posso non citare le parole scritte dal nostro fondatore beato Conforti nella sua "lettera testamento", là dove esprime il desiderio che tra le caratteristiche della nostra congregazione ci sia "uno spirito di amore intenso per la nostra famiglia, che dobbiamo considerare come madre, e di carità a tutta prova per i membri che la compongono".



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