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Sono piombate tra monti, campagne e spiagge le immagini della fuga dall’Afghanistan, con la resa del governo in carica, dell’esercito addestrato e il ritorno del regime talebano. Sono piombate nel bel mezzo dell’agosto italiano, tra vacanze riassaporate e ferie agognate di un’estate nostrana, in fuga da ogni pensiero contagioso. Invece, la storia ancora ha prepotentemente bussato alle nostre porte. Questa volta, non c’erano naufraghi da salvare, da liquidare distrattamente con un semplicistico “ancora arrivano…”, non c’erano “cattive” Ong che non li lasciano a casa loro.
Avevamo idealmente alzato coppe europee al cielo dopo notti magiche, avevamo vissuto albe che brillavano di medaglie olimpiche e paralimpiche nel cielo di Tokyo. Ci siamo sentiti sul tetto d’Europa e del mondo, ripagati da quasi due anni di sofferenze. La lotta, in caso, si limitava a spiegare ai Covid-scettici perché è importante sottoposi al vaccino. Ma non c’è stato troppo tempo di gioire, di sbandierare il Green pass… C’erano 100 metri diversi da espugnare… quelli verso gli aerei ponte da Kabul. Altre marce forzate a cui assistere… quelle delle persone che invocavano aiuto. C’era un salto in alto diverso da applaudire drammaticamente… quello dei bambini consegnati dalle mamme ai militari oltre il filo spinato. Con quale stato d’animo, possiamo solo intuirlo: dolore, speranza, rabbia, preghiera.
Ora che le foglie di questo ottobre missionario iniziano a staccarsi dagli alberi, anche noi ci sentiamo un po’ come quelle madri che protendono mani, anche noi ci sentiamo come quei bambini ancora troppo piccoli per voltarsi indietro, per capire chi e cosa lasciano, in cambio di un futuro tutto da scrivere o, meglio, da disegnare. Dall’altra parte della luna troveranno, si spera, libertà di opinione, di espressione, di religione, di costumi, istruzione e sport. In una sola parola, libertà di scegliere come realizzarsi. Ma a quale prezzo?
Solo per tutto questo, dovremmo essere a fianco del popolo afghano, ma anche a quello iracheno, libico, sud sudanese, haitiano e così via. Vicini a tutti coloro che non riescono a partire, che decidono di restare, che non hanno ponti aerei o corridoi umanitari. La missione è là, è qui, è adesso, è nei nostri cuori, ma soprattutto nelle nostre teste, nelle nostre mani.     



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