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C’è chi dice “Je suis Garissa”!

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Ricordo con piacere gli anni dell’università. Mi sentivo più libero rispetto ai tempi costretti delle scuole superiori. Era il primo passo verso l’autonomia personale, che mi permetteva di regolare ritmi e responsabilità: non studi oggi né domani, ma prima o poi devi farlo… Inoltre, all’università si respirava un’aria positiva, con incontri, scambi d’opinione e confronti, aiuto reciproco senza competizione.

Certo, non mancavano impegno, studio e sacrificio, tensioni pre-esame… Eppure la mente era aperta a 360°, perché le lezioni non erano tutto. Sono gli anni della maturità, in cui si studia anche a diventare adulti, sempre che la vita non ti abbia costretto a farlo velocemente prima.

All’università di Garissa, in Kenya, chissà se i giovani hanno provato le mie stesse sensazioni. Se anche loro sognavano un futuro migliore per sé, per la propria città e nazione. Se nel campus, quel 2 aprile maledetto, stavano pensando agli esami, all’insegnante intransigente o a quello affascinante, che ti trasportava oltre i confini dell’università.

La follia omicida, che chiamare “religiosa” è una vera bestemmia, ha spezzato la vita di 150 studenti cristiani e delle loro famiglie. Mai mi sono sentito in pericolo in università, e forse anche gli studenti kenioti pensavano che quel luogo fosse tutto, meno che obiettivo della morte.

E fa ancora più male che questa strage sia stata compiuta da altri giovani, appartenenti alle milizie somale al Shabaab (che in somalo significa appunto “giovani”). Composta da ragazzi delle “scuole islamiche”, mirano a tenere viva l’esperienza delle corti islamiche combattendo i cristiani “infedeli”.

È già scemato il clamore intorno a questa vicenda, come spesso accade. Fino alla prossima strage, fino all’ennesimo tragico sbarco. Eppure, al di là di una tradizionale partecipazione al lutto, in Europa nessuno è sceso in piazza, nessun cartello è stato affisso, nessun capo di stato ha sfilato per strada, nessuno slogan tipo “Je suis Garissa” è risuonato. Sembra che ci siano morti di serie A e di serie B, che il terrorismo sia tale solo se colpisce noi da vicino.

E se in parte ciò è normale, dall’altra è viva l’impressione che Europa e Occidente debbano ancora affrancarsi da un senso di auto sufficienza e isolamento. Non si tratta solo delle istituzioni, ma anche dei popoli: di noi, che solo ora prendiamo coscienza di un mondo “altro” intorno a noi. Eppure, lo sport preferito sembra quello di perdere tempo per seguire l’ultimo tweet sui rom, gli zingari, i profughi “colonizzatori”, mentre tutto cambia, mentre crollano i ponti dell’autostrada e i soffitti delle scuole… Perché anche professionalità, serietà e responsabilità si sono presi una vacanza fuori stagione.

Lorenzo è morto perché non è stato una marionetta nelle mani di nessuno”. Lo ha detto Alberta Brambilla Pisoni, la mamma dell’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, una delle vittime della sparatoria avvenuta in tribunale a Milano. “Lorenzo era orgogliosissimo del suo lavoro e tante volte mi aveva detto 'Mamma, lo sai che il giuramento di noi avvocati è il più bello di tutti? Senza di noi non ci sarebbero il diritto, lo Stato, la famiglia, non ci sarebbe niente…".

Un giovane uomo, un professionista appassionato, ha perso la vita nel luogo in cui si credeva sicuro, in cui la giustizia e il diritto dovrebbero trionfare. Ma la legge non è eguale per tutti.



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