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“Bon bon padiri” (dacci le caramelle, padre).

Era il ritornello di un gruppetto di bambini che mi aveva visto succhiare una caramella. Sicuramente, pensavano che ne avevano altre (mi piacciono molto). E allora, rientro in casa ed esco con una manciata. Si mettono in fila, allungando la mano e con due occhi che ti dicono che ne vorrebbero un’altra (ma non ne ho la fabbrica).

Ma non bastano per tutti. E allora, succede il miracolo. Qualcuno comincia a spezzarla e ne dà un pezzettino a quelli più piccoli e così tutti sono contenti. Io rimango a bocca aperta. Di solito, quando le mangio (ah, la gola!), quasi le ingoio, invece loro…!

Però li vedo felici, pieni di gioia, perché sono riusciti ad accontentare tutti, nessuno escluso. E questa è la prima cosa da dire.

Poi, all’inizio della mia avventura in Africa, mentre stavo studiando la lingua, ho cominciato ad andare a parlare con loro. Mi sedevo sul muretto vicino alla missione e loro si facevano intorno. Mi guardavano da sotto in su e aspettavano che io parlassi. Apro la bocca e le prime parole mi escono un po’ imbrogliate, poi mi blocco…E loro “Hodari, padiri (coraggio padre)”. Continuo, ma le parole non mi vengono più. Cominciano a sorridere, poi a qualcuno scappa da ridere. Io mi nascondo il volto con le mani, però guardo tra le dita cosa stanno facendo. Vedevo che con i gesti indicavano che ‘sto bianco proprio proprio era un po’ imbranato.

Poi uno si avvicina. Mi prende le mani e mi guarda, dicendomi: “Usiogope, padiri. Pole pole utajifunza (Non avere paura padre, piano piano l’imparerai)”. Mi prendono per mano e si mettono a danzare. Io non sapevo come fare (pensate a un sacco di patate che vuole diventare agile). Uno prende il tamburo e inizia la danza. Come per incanto, anch’io mi muovo con facilità, come se l’avessi fatto da sempre. Si mettono a ridere divertiti. “Angalia, padiri, anacheza bien (guarda, il padre danza bene)”. E così è iniziata l’amicizia. Ogni giorno ci si salutava, si scambiavano le notizie. Poi mi accompagnavano in qualche casa per trovare gli ammalati o le persone anziane. Anche loro sorridevano (qualche dente se ne era già andato, ma il sorriso no).

La gioia è qualcosa che nasce piano piano, poi non si ferma più. Coinvolge tutti.

E questo l’ho visto tante volte alla messa domenicale: si canta, si danza, si è felici di condividere insieme un po’ della vita, un po’ della fede nell’inventore della Gioia: Gesù Cristo. Lui è sempre là che danza in mezzo a noi. Gli prestiamo il nostro corpo, il nostro cuore e tutto si muove, tutto esprime qualcosa di speciale. Toglie la tristezza, anche se i problemi rimangono.

Dà la forza per affrontarli con un po’ di serenità. Insomma si fa il pieno per tutta la settimana.

Questa poi continua, quando passi nei villaggi a trovare le persone. Senti le donne che cantano i canti religiosi, mentre pilano (frantumano) la manioca. Con questo ritmo, il lavoro diventa meno faticoso e porta un po’ di felicità, di speranza nel futuro. O i pescatori che la notte, mentre gettano le reti, al chiaro di luna, si danno forza e coraggio per fare una buona pesca e per portare la gioia a casa.

Tanti piccoli gesti che messi insieme, costruiscono qualcosa di nuovo, qualcosa che dura.

E i piccoli amici dove si sono nascosti? Sono sempre lì. Tu non ti accorgi, quando ti sbucano da dietro una casa e ti corrono incontro, dicendoti: “Bon bon padiri”. Allora tu ti fai furbo. Ne tiene sempre qualcuna in tasca, perché loro sanno che te le possono chiedere sempre e che tu gliele dai. I loro occhioni dicono più delle parole. A volte, toccandosi la pancia, aggiungono: “Ndjala, padiri”( ho fame). Questo non lo puoi risolvere, ma se gli aggiungi un’altra caramella, ti lanciano un “aksanti, padiri” (grazie, padre).

E anche tu sei contento.


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