[dal sito Missionarie Saveriane] *
1° Domenica d'Avvento - Ascoltiamo la Parola: Mt 24, 37-44 :
Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio dell’uomo, ma solo il Padre. Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.
La lettura liturgica inizia il versetto dopo, ma il v. 36 fa eco alla domanda iniziale che dà avvio a tutto il discorso : «Quando succederanno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?» (Mt 24,3). I discepoli sono giustamente spaventati e preoccupati perché Gesù ha appena predetto la distruzione del Tempio, di quella costruzione così solida, maestosa e riccamente adornata. La sua pietra chiara e rosacea pareva una torcia accesa sotto i raggi del sole e della luna.
Quando Matteo scrive, Gerusalemme e il suo Tempio sono già caduti sotto i colpi dell’assedio romano. Ma se di un edificio così possente, di un culto così solenne, non restavano che monconi di macerie, chi o cosa si sarebbe potuto salvare? Era come dire che non c’era nulla di duraturo, nulla che fosse in grado di sopravvivere alla violenza della storia, alle catastrofi che la minacciano. La resa di Gerusalemme non è che un simbolo della distruzione di cui è capace l’uomo. Sei milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento valgono infinitamente più di sei milioni di templi distrutti, ma la domanda che gridano verso il cielo è sempre la stessa: perché?
I discepoli vogliono in qualche modo mettersi al riparo, strappare al Maestro una data, un segno, di cui magari solo loro saranno i custodi, per potersi premunire di fronte alla fine.
Fanno la domanda sbagliata, che tradisce quell’istinto, tra l’altro sacrosanto, di salvare la pelle.
Ma né il Maestro né gli angeli lo sanno, segno che bisogna dirigere lo sguardo da un’altra parte. Gesù ne approfitta per fare un lungo discorso, l’ultimo prima della Passione. L’hanno nominato «discorso escatologico», perché parla delle cose ultime, cioè del senso della vita, della meta del tempo.
Più che alla fine, Gesù è interessato al fine.
E non è un caso che pronunci queste parole seduto sul monte degli Ulivi, il monte che lo vedrà presto catturato come un malfattore. Anche le Beatitudini, il primo discorso, fu proclamato su un monte innominato. Dalle vette si contempla bene l’orizzonte, si capisce meglio che senza strada non ci si sarebbe mai arrivati. E la gioia della vetta è fatta di sudore, di piedi doloranti, di fiato corto. Ebbene, dice Gesù, c’è il rischio di andare per il mondo senza mai alzare lo sguardo all’intorno, di venire talmente sommersi dalle cose da non sapere neanche più perché si fanno, né verso dove si va.
Gli istanti dei nostri giorni paiono dei sassi buttati a casaccio su un mucchio, per inerzia, senza un progetto.
Ai tempi di Noè si mangiava, si beveva, si prendeva moglie e marito. Oggi si va al supermercato, s’aspettano le vacanze, si fuma, si naviga su Internet, ci si stordisce... e non ci si accorge di nulla, non si coglie la gravità del baratro che si apre davanti a noi se non cambiamo stile di vita. Siamo come instupiditi, riluttanti a chiederci qual è il senso di ciò che facciamo, a immaginare oltre l’ammucchiarsi delle cose una presenza, un incontro, una promessa.
Gesù ci apre uno squarcio su questa promessa: «Tornerò». Torna solo chi è già venuto. Ed è su questa venuta che si gioca il senso della storia. Se oltre le cose c’è qualcuno o no; se oltre l’ingiustizia ci sarà alfine una riabilitazione delle vittime; se oltre il tempo ci aspetta un altro tempo; se oltre la morte ci attende ancora vita. Se... È un «oltre» che, per chi lo sa scorgere ora, qui, anche in questo momento balordo della storia, orienta i nostri passi, sostiene la nostra speranza, rianima la voglia di fare un po’ di bene.
Celebrare l’Avvento vuol dire tergere lo sguardo sui segni delle presenze, di chi sta bussando alla nostra porta.
Vuol dire tenere gli occhi ben aperti sul mondo, attenti a ogni brusio d’incontro, come una madre che veglia il sonno del suo piccolo con la febbre, come il soldato che attende nella notte il ritorno dei compagni dopo la battaglia.
Vuol dire fare silenzio per sentire rumore di passi che si avvicinano.