Camerun in crisi: il rischio è la secessione
Fonte: http://omnisterra.fides.org - Di: Enrico Casale.
Sale la tensione con scontri che hanno provocato numerosi morti sia tra gli anglofoni sia tra le forze dell’ordine. Per i vescovi del Camerun la soluzione è una maggiore attenzione alle diversità che convivono nel paese: "C’è un problema di ingiustizia che va risolto attraverso il dialogo".
È una crisi annunciata quella scoppiata nelle province occidentali del Camerun. Da anni si sapeva dell’insoddisfazione delle popolazioni anglofone, che si sono sempre sentite marginalizzate dal governo centrale. Si conosceva il loro malcontento e si temeva che, prima o poi, sarebbe esploso.
Probabilmente il governo centrale di Yaoundé ha sottovalutato il rischio e, quando ha deciso di affrontarlo, lo ha fatto in modo duro, scatenando una reazione altrettanto dura da parte della popolazione locale. Il risultato è la crescita della tensione con scontri che hanno provocato numerosi morti sia tra gli anglofoni sia tra le forze dell’ordine.
Per comprendere questa crisi bisogna fare un salto indietro nella storia. La Conferenza di Berlino del 1884 che aveva suddiviso l’Africa in aree di influenza (di fatto aveva spartito il continente tra le potenze europee) aveva assegnato il Camerun alla Germania. Il Paese era così diventato una colonia del kaiser tedesco come Namibia, Tanzania e Togo.
Alla fine della Grande guerra, sconfitta la Germania, Francia e Gran Bretagna, le potenze vincitrici, si sono divise le sue colonie. Il Camerun è stato frazionato in due parti. La regione occidentale è stata annessa alla Nigeria ed è finita sotto l’influenza britannica. Il resto del Paese è invece diventato una colonia francese. Questo equilibrio si è mantenuto intatto fino al 1° gennaio 1960 quando il Camerun francese è diventato indipendente da Parigi.
Di fronte a questa indipendenza, la parte anglofona del Camerun si è spaccata. Una parte è rimasta con la Nigeria, l’altra ha deciso, tramite un referendum, di riunirsi con il Camerun. L’annessione si basava su un’intesa che prevedeva la creazione di uno Stato federale che permettesse a ciascuna delle due componenti della società di mantenere una propria autonomia culturale e linguistica, pur nell’unità statale. E, infatti, nell’agosto 1961, il Parlamento di Yaoundé ha approvato una Costituzione federale che è poi entrata in vigore nel settembre dello stesso anno.
Sulla carta sembrava che l’integrazione o, quanto meno, la convivenza, fosse possibile.
In realtà, già a partire dai primi anni dopo l’indipendenza, il governo centrale ha iniziato a varare politiche di unificazione forzata, centralizzazione della struttura di potere e assimilazione forzata. Politiche che sono culminate nel 1972 con la soppressione del sistema federale e, con essa, la nascita della Repubblica unita del Camerun diventata poi, nel 1984, Repubblica del Camerun. Il processo di annessione è continuato e gli anglofoni si sono sentiti sempre più marginalizzati. Negli anni hanno visto erodersi molti spazi della loro autonomia. E sono riusciti a mantenere una certa indipendenza da Yaoundé solo nei settori educativo e giuridico.
Nelle scuole si è continuato a insegnare in lingua inglese e nei tribunali ad essere applicato un sistema di common law simile a quello britannico. Un’ulteriore colpo all’autonomia degli anglofoni è arrivato nell’ottobre 2016. Il governo invia nelle province anglofone alcuni insegnanti di madrelingua francese e decide di limitare la common law.
Ne sono nate dure proteste, altrettanto duramente represse dalle forze dell’ordine.
«Il presidente Paul Biya, che guida il Paese da 35 anni, non è avvezzo al dialogo – spiega Ludovic Lado, gesuita camerunese e analista politico -, alle manifestazioni di protesta ha risposto inviando rinforzi alla polizia e alle forze armate. Ne è nata una feroce repressione che, in molti casi, è sfociata in aperte violazioni dei diritti umani. I leader della comunità anglofona hanno perso i loro posti di lavoro perché sospettati di sostenere i manifestanti. Alcuni di essi sono stati arrestati e portati a Yaoundé, dove dovranno subire un processo in base alle leggi antiterrorismo».
In risposta al pugno di ferro, è nato un movimento separatista che negli ultimi mesi si è radicalizzato, polarizzando ulteriormente le posizioni di anglofoni e francofoni. Le rimostranze degli anglofoni non si sono più limitate ai sistemi educativo e giudiziario, ma si sono spinte oltre fino alla dichiarazione di autonomia, avvenuta il 1° ottobre, delle regioni anglofone e la creazione della repubblica di Ambazonia.
Una repubblica che, al momento, è rimasta sulla carta. Ma le manifestazioni sono state intense e la reazione delle forze dell’ordine ancora più dura. I morti sono state decine. Le autorità di Yaoundé (Camerun) hanno emesso mandati d’arresto internazionali per quindici leader di un partito separatista anglofono, il Consiglio Nazionale del Sud del Camerun. Secondo un sito web locale, Sisiku Ayuk Tabe, il presidente autoproclamato della regione autonoma, è tra quelli ricercati.
In una dichiarazione rilasciata all’inizio di ottobre, Zeid Ra’ad Al Hussein, commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha affermato di essere preoccupato per la reazione con la quale il governo ha gestito le manifestazioni pacifiche degli anglofoni. Ha chiesto un’indagine indipendente per chiarire il numero di morti. «Invitiamo le autorità ad assicurare che la polizia impedisca l’uso della forza da parte dei suoi agenti – ha aggiunto -. Le persone devono poter esercitare il loro diritto a riunirsi in modo pacifico e a esprimersi in modo libero, anche attraverso l’accesso ininterrotto a Internet».
Il governo ha infatti bloccato anche il flusso di informazioni, restringendo o, in alcuni casi, impedendo l’accesso ai social network (Facebook, Twitter, WhatsApp, ecc.). Dopo le Primavere arabe, i social network hanno avuto un ruolo fondamentale nel trasmettere parole d’ordine di ogni rivolta. Yaoundé, come molti governi africani, ha così deciso di bloccare i server per timore che le manifestazioni trovassero una cassa di risonanza.
Gli stessi esponenti del governo hanno ammesso che il blocco era stato ordinato per evitare che i social media fossero utilizzati «attivamente per diffondere informazioni false e per incitare membri del pubblico contro le istituzioni statali».
Quello che doveva essere un provvedimento temporaneo, è però diventata una misura permanente. Le due province sono quindi costantemente isolate dai social. Le Nazioni Unite hanno anche definito la mossa come un atto che calpesta la libertà di parola e di espressione.
«Queste restrizioni – è scritto in un rapporto dell’Onu – devono cessare immediatamente e il governo deve garantire un’indagine approfondita, imparziale e indipendente su tutte le accuse di violazioni dei diritti umani perpetrate durante e dopo gli eventi del 1° ottobre.
Il governo deve adottare misure efficaci per perseguire e sanzionare tutti i responsabili di tali violazioni». Condanne delle violenze sono arrivate anche dall’Unione africana, dall’Unione europea e dagli Stati Uniti.
Di fronte alle tensioni nelle regioni anglofone, la provincia episcopale di Bamenda è intervenuta denunciando «una volontà genocida» e «un’epurazione etnica» da parte delle autorità. I vescovi locali hanno puntato il dito contro il governo che, a loro parere, ha «usato in modo irresponsabile le armi da fuoco contro civili disarmati». «I nostri fedeli – hanno affermato i prelati - sono stati perseguiti fin dentro le loro case, alcuni sono stati arrestati, altri mutilati e altri ancora colpiti a morte. Esprimiamo dolore per le vittime e per le sofferenze dei feriti e di chi ha perso le proprietà per i saccheggi e gli incendi, e per coloro che sono in pena per le persone care disperse o rapite».
Parole molto ferme anche nel comunicato emesso dalla Conferenza episcopale del Camerun.
«Nessuno ha il diritto di uccidere – è scritto – Noi denunciamo la violenza utilizzata e lo facciamo con tutte le nostre energie». Secondo i vescovi del Camerun, però, la soluzione non è la secessione, ma una maggiore attenzione alle diversità che convivono nel Paese. «In Camerun – osserva mons. Samuel Kleda - vivono 23 milioni di persone e si vorrebbero creare due Stati. Molti camerunesi pensano che questa non sia la soluzione. C’è un problema di ingiustizia che va risolto attraverso il dialogo».
Secondo Ludovic Lado, la soluzione della crisi deve passare attraverso un dialogo internazionale, sotto la mediazione internazionale che lavori per un’effettiva decentralizzazione delle strutture di governo.
«C’è bisogno anche di un cambio al vertice – osserva Lado -. La durata del regime di Biya (35 anni) e le sue politiche sono una parte del problema delle province anglofone. La soluzione, o parte di essa, potrebbe arrivare dalle dimissioni al termine del mandato (2018).
Libere elezioni potrebbero favorire il rinnovamento della classe politica. Se dovesse rimanere attaccato alla sua carica, c’è il rischio che la situazione si tenda ulteriormente, portando a ulteriori violenze».