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Tra i Kayapó dopo lo Tsunami amazzonico

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Arrivato a São Felix do Xingu nel 1980, lavorai per un decennio avendo come base Kikretum, uno dei cinque villaggi della grande riserva kayapó del Pará (6.000 índios in un territorio di 3.284.000 ettari). L’improvviso aumento della popolazione, attratta da tutto il Brasile dalla ricchezza forestale e mineraria, e il violento impatto provocato tra i kayapó da questo fenomeno fanno della regione una grande sfida socio-culturale, ambientale e anche missionario-pastorale.

In quel periodo tutto mi appariva maestoso, il fiume Xingu, la foresta amazzonica faceva venir voglia di cantare “Sono cittadino, dell’infinito [...] e porto la pace nel mio cammino”. Nei villaggi si arrivava in barca, la comunità aspettava sulla sponda del fiume e poi c’era il primo incontro nella “casa dei guerrieri”. Una vita dettata dal ritmo delle attività della comunità kayapó, dalle feste, dalle condizioni del tempo.

In pochi anni il clima è cambiato nei villaggi mano a mano che avanzava la distruzione della foresta; le acque dei fiumi Fresco e Branco erano diventate di color marrone. Ormai mi veniva in mente un’altra canzone di padre Zezinho: “Non è questa la natura che volevo, che cade indifesa, perdendo la bellezza, portando la tristezza nella terra che ho creato”. I kayapó, dopo una prima resistenza, finirono per lasciarsi contaminare dal virus della ricchezza improvvisa grazie alla vendita del legname pregiato (mogano) e dell’oro (comprando auto, seconde case a Redenção e Tucumã, con domestiche). Di fronte ai miei avvertimenti per quanto stava accadendo (comprese le liti familiari per le aree aurifere), il cacique di Kikretum non mi cacciò dal villaggio solo per non essere costretto a chiudere la scuola.

Una delle conseguenze di questo fenomeno è la trasformazione dei villaggi in luoghi di riferimento più che di vita comune. Aumentarono i posti “di vigilanza” del territorio contro le invasioni e nacquero piccole proprietà di gruppi familiari kayapó, da cui trarre profitto, vendendo oro, legname, pesce a imprenditori, cercatori e commercianti. Parlo del Pará tagliato dalla Transamazzonica, della famosa Serra Pelada e del progetto di colonizzazione Tucumã da parte di imprese minerarie come la Comipa, la Canopus e la Vale do rio Doce, di multinazionali dei cosmetici (Body-shop) e dei farmaci (Merk), nonché delle industrie del legname e delle grandi aziende agricole. Mancava solo la centrale idroelettrica di “Belo Monte” per completare il quadro.

QUEL CHE I KAYAPÓ MI HANNO RIVELATO DI DIO

I Semina Verbi presenti nella cultura portano a scoprire “tracce” della presenza di Dio nel popolo kayapó. Per esempio, racconta il mito che l’antenato kayapó sarebbe disceso dal cielo, seguendo le orme dell’armadillo che per scappare bucò la volta celeste calandosi sulla terra con una corda di cotone. Il cacciatore che lo inseguiva si calò con la stessa corda fino ad arrivare sulla terra e prendere l’armadillo. Col cacciatore discesero la moglie e i figli. Mangiarono l’armadillo e lì nacque il primo villaggio kayapó. “In cielo è rimasta molta gente – racconta ancora la tradizione kayapó –: guarda in una notte senza luna quanti fuochi accesi (le stelle) in cielo! È là che anche noi torneremo!”.

Tutti i documenti della Chiesa latinoamericana postconciliare sottolineano l’esistenza nei popoli indigeni “di valori umani di grande significato, frutto della presenza dei semi del Verbo”.

Perciò è un dono di Dio vivere tra loro, ma la convivenza mi ha spinto a richiamare l’attenzione dei kayapó sulla presenza del male, anche quello che abita nel cuore e nella società kayapó. Il popolo kayapó, attraente per le sue espressioni culturali (organizzazione sociale, arte plumaria, pittura corporale, ecc.) e la conoscenza etno-ecologica, è problematico nell’etica individuale, comunitaria e sociale (tensioni interne, divisioni, anche nel contesto familiare).

Vivendo con loro, ho imparato non solo a essere “solidale” coi loro problemi e le sfide provocate dallo tsunami della globalizzazione, ma pure a essere “profeta”, cioè critico e interlocutore, maestro e prete (wayangare). Avevamo anche tempo per presentare la vita di Gesù; gli indios desideravano conoscere la nostra vita di wayangare-preti, del vescovo mons. Erwin Kreutler, della Chiesa, del papa di Roma. In città ci incontravamo per conversare, anche sulle questioni che riguardano la loro vita, il loro territorio (Belo Monte), la partecipazione alle manifestazioni organizzate dai movimenti indigeni o dal Consiglio indigenista missionario (Cimi). Noi missionari siamo per loro “un ponte”, qualcuno che i kayapó cercano, anche per chiedere! D’altro canto questi incontri sono ore di catechesi informale, che i kayapó ricevono quasi senza accorgersene.

LA PASTORALE INDIGENISTA

Mons. Erwin, vescovo dello Xingu, nel 1982 creò il Coordinamento della Pastorale indigenista della Prelazia dello Xingu, di cui sono stato, per diversi anni, il coordinatore. Durante la prima Assemblea del popolo di Dio della Prelazia (1984), la Pastorale indigenista fu scelta come terza priorità per tutta la Chiesa locale. Tale scelta mi obbligò a preparare opuscoli sui popoli indigeni (la loro situazione, la loro vita minacciata) per l’animazione missionaria delle parrocchie e comunità ecclesiali di base. In pochi anni il numero degli agenti della Pastorale indigenista aumentò. Potevo contare sull’appoggio totale non solo del vescovo, ma dei parroci che preparavano la gente agli incontri sulla Pastorale indigenista.

Inoltre, sono stato coinvolto nel Cimi a livello regionale e nazionale, accompagnando delegazioni di kayapó a eventi importanti per la loro vita (votazione della nuova Costituzione brasiliana). Nel frattempo il Centro Padre Antônio Lukesch a Redenção, dove attualmente mi trovo, pensato come punto di appoggio per i kayapó che arrivano in città, ospita “L’esposizione kayapó permanente”, meta di studenti e turisti. E la Pastorale indigenista dispone di un archiviobiblioteca con una ricca collezione di cd-dvs sul mondo kayapó. Porantim e Mensageiro, periodici del Cimi nazionale e regionale, sono usati come sussidi da scuole e parrocchie per conoscere il mondo indigeno e il giornale diocesano O Católico pubblica ogni mese riflessioni e notizie della Pastorale indigenista.

CONDIVISIONE CON LA CHIESA CHE MI HA INVIATO

Alla base della mia vocazione missionaria ci sono la mia famiglia, la comunità parrocchiale e la diocesi d’origine (Vicenza). Noi missionari non inviamo a casa soldi, come fanno gli emigrati, ma notizie. Stimolata dalla nostra sensibilità, la comunità parrocchiale d’origine è sempre stata disponibile a condividere la nostra vita missionaria, come avveniva nelle prime comunità cristiane. Iniziative culturali, miranti a dare un’immagine più autentica del mondo missionario, partendo dai “valori dell’universo indigeno che serviamo”, facilitano il dialogo con la Chiesa e la comunità di origine e soprattutto col mondo dell’educazione e della cultura. Quasi tutti gli anni abbiamo la presenza di giovani, ma anche di meno giovani, laici che vengono dalla nostra terra di origine, a vedere per conoscere la nostra vita, a darci una mano, a condividere il lavoro e anche, al ritorno, a decidere per una vita simile alla nostra. Questo é uno dei risultati migliori.



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