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Qoèlet, Missione come pensiero lucido nella crisi

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In un’epoca in cui il suo popolo vive sotto una dominazione straniera e la propria identità culturale è messa alla prova, un saggio si domanda: “quale profitto trae l’essere umano da tutta la fatica con cui si affatica sotto il sole?” (1,3; 3,9; 5,15); attorno a questo interrogativo ruota la discussione del saggio sul senso della vita. Chi era, però, questo personaggio, il cui nome in ebraico è alla forma femminile? Qoèlet non è di per sé un nome proprio, ma un nome di copertura, forse un soprannome, oppure designa la funzione di questo personaggio a Gerusalemme (la “guida dell’assemblea” civica o un esponente autorevole della stessa). Il saggio si presenta inoltre sotto le vesti di Salomone, il patrono della sapienza ebraica (1Re 3,4-15), anche se non è più il giovane Salomone vittorioso negli intrighi di corte e neppure il monarca orientale che innalza imponenti edifici. È il Salomone vecchio che si scontra con il problema della morte e fa il bilancio delle sue realizzazioni, come mostra il costante ricorso a forme verbali al passato.


UN SAGGIO CHE PARTE DALL’ESPERIENZA

La discussione del saggio sul senso della vita parte dall’esperienza, che si presenta contraddittoria, come mostra la continua ripresa del termine hebel, tradizionalmente tradotto “vanità”, ma che ha il significato concreto di “soffio” e, in senso traslato, indica qualcosa di evanescente. Come mostrano le immagini proposte dal saggio, tutto è fugace: né il piacere, né il possesso, né la discendenza, neppure Dio sono in grado di colmare la sensazione di impotenza che relativizza e addirittura sembra vanificare ogni ricerca e sforzo umani.

IN UN’EPOCA DI ROTTURA TRA FEDE E VITA

L’autore del libro si pone di fronte alla tradizione sapienziale in forma critica. Mentre altri saggi ritengono fondamentale il rinvio al passato, alla tradizione, Qoèlet non ha altro punto di riferimento che la sua capacità d’indagine e di penetrazione. Si potrebbe riconoscere in lui un ricercatore puro, ma ciò è probabilmente inesatto, se consideriamo l’epoca in cui visse. Qoèlet condivide con i saggi che lo hanno preceduto la problematicità dell’esistenza, la domanda su quale profitto abbia la buona condotta e quale retribuzione ci sia per le opere buone e per quelle cattive.

A differenza dei saggi antichi (cfr. il libro di Proverbi), Qoèlet non riesce più a legare la sua esperienza con le conclusioni alle quali era pervenuta la sua tradizione intellettuale e religiosa. È quindi il testimone della profonda distanza che si era creata tra il linguaggio della fede e l’esperienza della vita in un’epoca in cui le certezze di molti erano scosse e che coincide con gli inizi del periodo ellenistico, tra la fine del quarto e l’inizio del terzo secolo avanti Cristo.

SI LIMITA A PROPORRE INTERROGATIVI

C’è chi attende il messia, ma per Qoèlet non vi è nulla di radicalmente nuovo nella storia: “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” (1,9) e tutto è in movimento come “il vento che ritorna su di sé” (1,6). C’è chi crede di poter leggere il corso della storia, come i profeti, per i quali c’è un piano di Dio; per Qoèlet l’opera di Dio rimane insondabile nella sua interezza, sebbene l’essere umano non possa negare l’agire positivo di Dio (cfr. 3,11). C’è chi si sforza di trovare leggi che regolino il vivere umano, come i saggi dei Proverbi. Qoèlet afferma al riguardo: “non vince la corsa chi è agile, né la battaglia è vinta dai più forti. Non è al sapiente che tocca il pane, né agli abili le ricchezze e neanche agli accorti il favore, perché a tutti tocca secondo il tempo e il caso” (9,11).

Qoèlet si distanzia dalle conclusioni di chi lo ha preceduto, argomenta basandosi sulle sue esperienze, spesso si limita a proporre solo interrogativi. Qui sembra all’opera l’influsso di tradizioni straniere, soprattutto del pensiero greco; molti elementi, per essere capiti, vanno forse letti in quest’ottica, ma l’autore non sta parlando ai greci.

I suoi destinatari sono ebrei, dato che il testo è stato scritto in ebraico. Al tempo dell’autore, la tradizione sapienziale orientale si era da tempo incontrata con quella greca e ciò può spiegare la novità dell’argomentazione del libro, che mette in discussione le conclusioni tradizionali. Importante è anche il rapporto tra l’autore e la propria religione: egli non la rinnega (non è dunque ateo), invita anzi a fare offerte e a offrire sacrifici, ma non affida più alla religione il compito di dare la risposta alle domande esistenziali, perché è venuta meno in lui quella relazione che aveva permesso ad Abramo di lamentarsi con Dio e discutere con lui (Gen 18,25), così come a Giobbe di lanciare la sua sfida all’Onnipotente, pur sapendo che rappresentava un’opzione pericolosa: Giobbe, infatti, non voleva discutere di Dio, ma parlare con Dio. Qohelet non discute, né si lamenta con Dio; neppure sente la necessità di parlargli: l’Altissimo e la sua condotta sono per lui oggetto di discussione.

Dio non è più colui con il quale stabilire una relazione.

INVITANDO ALLA GIOIA

La lettura del libro ha suscitato interpretazioni radicalmente divergenti, poiché molte volte a un’affermazione fa seguire poco dopo la negazione di quanto appena affermato. Egli sembra qui però utilizzare le tecniche della diatriba, tramite le quali si dà la parola agli avversari: ciò implica che il lettore è sollecitato a non decidere immediatamente tra due posizioni, ma a prendere coscienza di entrambe, proposte in un dialogo/discussione che contribuisce a valutarle criticamente. Accogliere dunque alcune asserzioni isolate del Qoèlet come messaggio del libro sarebbe dunque frutto di unilateralità. Valorizzando le tensioni presenti nel libro, emerge che esso non è la denuncia dell’assurdità del reale, che ha come esito una visione tragica dell’esistenza, ma il suo autore non può neppure essere presentato come un illuso “predicatore della gioia”.

Nel libro s’incontra, invece, un pensiero critico che non rimane chiuso in se stesso. Come tutta la tradizione biblica, Qoèlet pensa che Dio ha fatto bella ogni cosa (3,11), anche se non crede di poter dare una giustificazione alla situazione attuale del mondo. Semplicemente ne prende atto: il vantaggio/profitto non dipende da leggi immanenti al reale o dalla condotta umana; il senso della vita non si ricava da una ricerca accurata dei saggi (cfr. 1,13-18); la gioia non sgorga da una vita agiata e ricca di piaceri (cfr. 2,1-11).

SENZA CHIUDERE GLI OCCHI DI FRONTE ALLA REALTÀ

Questa presa d’atto non lo conduce, però, a negare valore all’agire umano o a ripudiare il mondo e la vita. Al di là dei tanti lati oscuri, rimane l’insistente invito alla gioia che ritma l’opera (2,1-11; 2,24-26; 3,12-13; 3,22; 5,17- 19; 8,15; 9,7-10; 11,7-12,1), anche se ciò non basta a fare del tema della gioia il centro del suo pensiero. Se il saggio invita a gioire, pur constatando le esperienze negative, non intende però che si debba sospendere la riflessione o evitare di prendersi a cuore la problematicità dell’esistenza: l’invito alla gioia non è un invito a “gioire nonostante tutto” o a chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Qohelet è un saggio e come tale “ha gli occhi in fronte” (2,14): esiste una possibilità di integrarsi anche entro un ordinamento la cui giustizia non è totalmente compresa, esiste la possibilità di dare pienezza alle proprie giornate, pur senza attendersi il superamento del limite che la vita impone.

Il saggio, a differenza di alcuni pensatori nostri contemporanei, non nega che vi sia un fondamento all’esistenza, anche se per lui, a differenza di altre voci bibliche, Dio sembra ridotto a un principio ordinatore. Il saggio ebreo non capisce, ma neppure giudica: nell’affermazione di alcuni filosofi, secondo la quale il mondo è assurdo, è implicito un atto di accusa nei confronti della realtà, poiché l’irrazionalità che in essa si percepisce è sentita come oppressione, negazione, privazione; in questo senso l’universo è colpevole verso di noi, poiché ci nega quanto razionalmente ci sarebbe dovuto.

Qohelet non è un accusatore, né si sente defraudato: è un lucido pensatore, che sa che il mondo non gira a vuoto e che bene e male non si equivalgono; riconosce i limiti del suo sapere, li accetta, perciò può accogliere positivamente la “parte” (heleq) che Dio gli ha assegnato in questa vita (cfr. 3,22; 5,17-18; 9,9). In tal modo la Bibbia dà la parola a chi fatica ad integrarsi nella vita, ma non smette di lasciare aperto uno spiraglio verso un senso che non è solo esito di scandaglio o speculazione, ma di dono, dialogo e interpellazione.



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