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Michea, Missione come bontà e giustizia

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Sul profeta Michea il testo biblico che porta il suo nome offre poche informazioni. Secondo l’intestazione (1,1), Michea è intervenuto sotto tre re di Giuda, il che fa supporre una lunga attività, di una quarantina d’anni, che contrasta con la brevità della sua testimonianza scritta. È contemporaneo di Isaia e vive in un’epoca particolarmente drammatica per il regno di Giuda (cfr. 2 Re 17-20): è il periodo dell’espansione dell’Assiria.

Michea è originario di Morèset, a 35 km da Gerusalemme, sulle colline digradanti verso il mar Mediterraneo, una zona vicina ai Filistei. Viene dalla campagna, ma il suo linguaggio e il suo stile dimostrano che non era un povero agricoltore, bensì una persona colta, probabilmente a contatto con i saggi. Pur denunciando gli abusi del potere centrale, egli non si presenta infatti come un contadino oppositore per principio nei confronti della capitale, o come il porta-parola di una classe oppressa che serba rancore ai dirigenti e ai profittatori del regime di Gerusalemme, ma come il testimone del Signore.

Michea sembra conoscere bene le autorità civili e religiose di Gerusalemme, le giudica con lucidità e severità. Il suo stile vibrante è talvolta difficile, tanto più che usa abbondantemente dei giochi di parole i cui dettagli sfuggono ai lettori di oggi.

CONTRO IL DISPREZZO DELLA GIUSTIZIA

Il libro si compone di due parti (cc. 1-5 e cc. 6-7) che presentano una struttura parallela: a oracoli di condanna che annunciano la sventura (Mi 1-3 e 6,1- 7,7) seguono oracoli che annunciano la salvezza (Mi 4-5 e 7,8-20). Michea si unisce ai profeti del sec. VIII nella condanna del regime sociale e politico del suo tempo; è particolarmente duro e preciso nel giudizio che annuncia su Samaria e soprattutto su Gerusalemme. Il libro si apre con l’annuncio solenne della condanna delle due città ribelli al loro Dio. Il profeta si concentra, come Amos, sull’iniquità che regna all’interno del suo popolo; denuncia le macchinazioni degli altolocati che cercano di impadronirsi delle terre sulle quali non hanno diritto, poiché l’eredità paterna sulla quale cercano di mettere le mani è un bene sacro in Israele (Mi 2,1-5; cfr. 1 Re 21; Am 4,1; 5,11; Is 5,8-10), inoltre troviamo molte altre denunce.

Le parole di Michea illustrano lo stato al quale si abbassa una società in cui la giustizia è disprezzata dai suoi responsabili politici, giuridici e religiosi.

Michea non si accontenta tuttavia di tracciare una diagnosi sulla situazione di Gerusalemme; egli annuncia pure le misure prese dal Signore contro una città abbandonata all’arbitrio; proclama la sentenza contro Sion, la città di David e del Signore (cfr. 3,12: “per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa”) e questa sentenza sarà ricordata un secolo dopo al tempo di Geremia (cfr. Ger 26,17-19): quando la giustizia è in causa, Dio non risparmia né il suo popolo né la sua città.

CONTRO IL CULTO DEI BENI

La tragedia però non sarà la fine della storia del popolo: Michea propone diversi oracoli di salvezza, tra i quali risalta quello riguardante Betlemme, una piccola borgata di Giuda (5,1-3.5), con il quale si annunzia la rinascita della dinastia di David; nel mezzo degli avvenimenti dolorosi delle invasioni assire, il profeta promette ai suoi contemporanei che il Signore darà loro un re come David.

Gli oracoli di condanna di Michea si concentrano tutti sulle ingiustizie sociali.

Mentre la teologia deuteronomistica considera il culto reso agli dèi stranieri la causa principale della scomparsa dei regni d’Israele e di Giuda, il profeta vede la causa principale della rovina dei regni nel culto reso ai beni di questo mondo, con le temibili conseguenze che provocano l’ira distruttrice di Dio. In uno degli oracoli più duri dell’Antico Testamento, il profeta proclama:

Udite questo, dunque, capi della casa di Giacobbe, governanti della casa d’Israele, che detestate la giustizia e storcete il diritto, che costruite Sion sul sangue e Gerusalemme con il sopruso; i suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro. Osano appoggiarsi al Signore dicendo: “Non è forse il Signore in mezzo a noi? Non ci coglierà alcun male” (Mi 3,9-12).

LA BRAMOSIA DELLE RICCHEZZE

L’oracolo si apre con la denuncia delle autorità per i loro sentimenti (“aborrite la giustizia”) e il loro atteggiamento complessivo (“storcete il diritto”), ma unisce anche un’accusa specifica: l’intento di ingrandire e rendere splendida la capitale. Michea non ama Gerusalemme, né i suoi edifici, né i suoi palazzi e non crede ai suoi tribunali.

Egli è infatti il profeta che smaschera il rovescio della medaglia: prosperità e progresso sono costruite con il sangue dei poveri, con evidenti soprusi.

Non sappiamo a quali fatti concreti egli faccia riferimento, forse a lavori forzati non retribuiti, a cui il popolo era costretto; forse ai tributi ingenti richiesti da opere che servivano solo a ostentare il potere. Per Michea, si tratta in ogni caso di misure crudeli, criminali e sanguinose. Alla radice di tutto sta però il fatto che la bramosia delle ricchezze si è impadronita di tutti, anche dei capi religiosi. Allo stesso modo, commentando l’ingratitudine del popolo verso i benefici attuati da Dio, Michea dichiara:

Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi. Forse perché ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho riscattato dalla condizione servile e ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria? (Mi 6,3).

L’ILLUSIONE DEL CULTO

Si tratta di un rimprovero che intende muovere a conversione, ma la via scelta dal popolo non è affatto gradita a Dio. Il popolo infatti ribatte:

Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? (Mi 6,6-7).

L’unica via che viene in mente al popolo è dunque quella del culto, qui rappresentato da un elenco di pratiche in graduale crescendo, culminante in un rito estremo (il sacrificio del primogenito) che in determinate occasioni sembra avesse trovato accoglienza anche nel popolo d’Israele (cfr. 2 Re 16,3; 21,6). Ma il punto di vista di Dio è assai diverso.

Come i contemporanei del profeta forse anche noi siamo tentati di rispondere alla domanda: con che cosa mi presenterò davanti al Signore? stilando un lungo elenco di pratiche possibili, che si compendiano nella nozione di sacrificio. Non pare bene presentarsi a Dio a mani vuote! Dio ha davvero bisogno che ci presentiamo con qualcosa in mano? E se sì, con che cosa? E poi dove dovremmo portarlo: ai piedi di un altare, di fronte alla statua di qualche santo?

LA MISSIONE COME PRATICA DELLA GIUSTIZIA

L’antico profeta aveva in ogni caso idee chiare: Uomo, ti è stato insegnato ciò che è bene e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio (Mi 6,8). Quando sono disprezzati diritto e bontà, si distrugge il piano di Dio; al contrario, quando si pratica il diritto e si ama la bontà, si attua il suo progetto sull’umanità. Dio ha rivelato la sua volontà a Mosè, tramite i suoi precetti. Dio non ha bisogno di prestazioni umane, ma di uno stile di vita, descritto per sommi capi nelle tre espressioni che suggellano l’oracolo:

 Anzitutto praticare la giustizia, che per Michea significa operare per instaurare l’equità per tutti, soprattutto per i più deboli;

 Inoltre amare la bontà, dove ricorre il termine hesed, che può essere tradotto in vario modo, ma che allorché si applica ai rapporti umani indica un amore contraddistinto da un forte elemento di fedeltà e di benevolenza; amare la bontà è dunque attuare relazioni cariche di umanità;

 Infine camminare umilmente con il tuo Dio: si tratta di quella condotta di vita che deriva dalla consapevolezza che Dio non abbandona il suo fedele, anche nel momento della prova. Il credente non è un preservato, ma sa di poter contare sempre sul Dio giusto e fedele.



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