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IL NON DETTO DI SACROSANCTUM CONCILIUM

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Ogni anniversario, se vuole sfuggire alla facile cattura retorica, può essere l’occasione per una rilettura dell’evento “celebrato”, al fine di poterlo riscoprire, mostrandone aspetti dimenticati o trascurati. Anche la Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium (SC) non sfugge a questa regola. Può essere, quella del cinquantesimo, l’occasione per guardare al quel grande testo con occhi rinnovati.

Pongo subito una domanda, che dovrebbe condurre tutto il mio breve percorso di riflessione: mezzo secolo dopo, che cosa scopriamo nel testo/contesto di SC e quali ulteriori esigenze ne derivano? Per rispondere a queste domande, utilizzerò sempre alcune “coppie concettuali”, che nella loro polarità ci indicheranno i punti salienti delle nuove esigenze.

RIFORMA / INIZIAZIONE

Il testo di SC è stato il primo frutto del Concilio (4 dicembre 1963); non solo, esso ha anche avuto l’effetto di identificare l’opera conciliare tutta con la “riforma liturgica”. È stata la “nuova liturgia” ad assumere, ben presto, il compito di rappresentare il nuovo corso della “Chiesa conciliare”. In tal modo la riforma liturgica ha dovuto subire, inevitabilmente, tutte le diverse forme di “conflitto” e di “polarizzazione” che la stagione postconciliare ha determinato.

In tal modo, paradossalmente, la “riforma liturgica” ha rischiato di smarrire le ragioni meramente “funzionali” e “strumentali” che l’avevano giustificata. In effetti, a cinquant’anni dal Concilio, possiamo vedere con molta maggiore chiarezza che il fine della riforma liturgica è un rinnovato atto di “iniziazione”, di cui la Chiesa aveva e ha bisogno, mediato da tutta la ricchezza del linguaggio rituale, per far crescere la “vita cristiana”. La riforma è dunque in vista di una “maggiore esperienza rituale del mistero”, non per una sua funzionalizzazione e strumentalizzazione.

VITA / RITO

In ragione di quanto abbiamo detto sopra, SC ha voluto rinnovare un intreccio più stretto tra rito e vita. Ma l’ha fatto e progettato con la chiara coscienza che la vita dovesse essere arricchita da un’esperienza celebrativa integrale, semplicemente nobile e comunitaria. Come non si è illuso sulla “autoevidenza dei riti”, il Concilio neppure si è illuso su una presunta “autoevidenza della vita”. Ha invece mirato a rilanciare un più forte e più radicale intreccio tra l’uno e l’altra.

A cinquant’anni di distanza, vediamo ancora troppe forme di “contrapposizione” – troppi timori rituali verso la vita dei soggetti, e troppi timori vitali verso le logiche poco trasparenti dei riti. Il testo di SC cerca di vincere la nostra ritrosia, tipicamente tardo moderna, nei confronti della mediazione simbolico-rituale. Esso, in ultima analisi, riabilita la “azione rituale” come fonte di vita e come culmine di fede.

PARTECIPARE / CELEBRARE

La prima conseguenza di questa rinnovata comprensione delle azioni rituali – intese come azioni di Cristo e della Chiesa – è una nuova forma di partecipazione ad esse. La actuosa participatio non è, semplicemente, una “partecipazione” ad un atto “comprensibile”, ma è la coscienza che “riti e preghiere” sono un atto comunitario, che ha bisogno di una comunità che si raduna, che scambia saluti, che ascolta la parola, che professa la fede, che prega per gli assenti, che presenta doni, che loda, rende grazie, benedice, che chiede perdono, che si scambia la pace, che condivide l’unico pane e l’unico calice, che si congeda con il fuoco nel cuore.

Questo è il passaggio da un “rito da osservare” (ritus servandus) da parte del solo prete a un “rito da celebrare” (ritus celebrandus) da parte di tutta la comunità. In questi cinquant’anni lentamente ci siamo accorti che questa “competenza comunitaria” non era immediata, ma aveva bisogno di forme specifiche d’iniziazione. 

UGUAGLIANZA BATTESIMALE / DIFFERENZA MINISTERIALE

Il passaggio da una Chiesa essenzialmente gerarchica a una essenzialmente comunitaria ha profondamente inciso sul modo con cui abbiamo recepito la riforma liturgica. Questo è stato un obiettivo punto di avanzamento: ossia la coscienza che l’azione liturgica è il linguaggio che riguarda tutti i battezzati.

Ma, con gli anni, è emersa più chiaramente l’esigenza di una “differenziazione ministeriale” di cui la Chiesa ha altrettanto bisogno. Da un modello in cui solo il prete celebrava e tutti gli altri “assistevano passivamente”, si è passati a un modello di maggiore “comprensione”, ma con una valorizzazione ancora troppo esile delle diverse ministerialità.

L’obiettivo del Concilio è di configurare un’assemblea in cui al “solo presidente”, corrisponde una “pluralità di ministeri”, che articola la presenza attiva del “popolo di Dio”. Una liturgia della Parola che non abbia ancora sviluppato un vero ministero della proclamazione non riesce ancora ad essere “forma sacramentale di comunione con il Signore che parla”. L’atto dell’“ascolto della Parola” presuppone una Chiesa responsabile nell’iniziare alcuni suoi membri all’arte del proclamare.

CREATIVITÀ / RIPETIZIONE

Un ulteriore aspetto di sviluppo, che la riforma ha giustamente messo in moto, è il superamento di una concezione della liturgia come “mera ripetizione di un repertorio sacro”. È nata, con pieno merito, una lettura dinamica, vivace e calda della celebrazione; questo, inevitabilmente, ha anche oscurato, talvolta in modo totale, il bisogno che l’azione rituale si dia in una sostanziale “ripetizione”.

Cinquant’anni dopo, guardando ai decenni trascorsi, possiamo ben vedere le difficoltà con cui possiamo oggi mediare tra “creatività” e “tradizione”. Anzi, proprio il fatto che queste parole possano opporsi frontalmente ci mette dinanzi alla nostra difficoltà: una tradizione è tale solo se è capace di novità, ma la novità è frutto di molta e profonda ripetizione. La lode della Chiesa, nel suo bisogno di nuove espressioni, ha avuto la necessità di tornare a una tradizione più ampia e più ricca del passato. Solo così potrà lasciarsi donare le parole nuove, di cui ha bisogno urgente.

IL DETTO E IL NON-DETTO

Infine, un duplice aspetto deve essere considerato. Da un lato la qualità “costituzionale” del discorso di SC, che spesso si limita a indicare soltanto le linee generali dell’intervento di riforma e di aggiornamento del culto cristiano. Dall’altro il ruolo che il “non detto” ha proprio nell’azione rituale.

Sul primo piano, bisogna riconoscere due aspetti della questione. Questo carattere generale della previsione di SC non ha impedito al testo di essere, in qualche caso, molto dettagliato. Le “consegne” di SC alla tradizione ecclesiale successiva – ad esempio in tema di eucaristia – sono state estremamente chiare. Ciò che sorprende, semmai, è che negli ultimi anni di questo cinquantennio vi siano stati tentativi di anestetizzare e di rimuovere SC, come se il suo testo non volesse far altro che “confermare la tradizione precedente”, senza alcuna discontinuità. Una lettura puramente “continuista” di SC è una lettura cieca.

SC cerca di servire la continuità della tradizione attraverso diverse profonde discontinuità. Ma qui s’innesta il secondo aspetto della questione, che è forse anche il più nuovo. In SC il “non detto” diventa importante nei termini di una rilettura di “riti e preghiere” che costituiscono la liturgia. Potremmo dire che le “preghiere” sono il “detto”, mentre i “riti” sono il “non detto” della tradizione.

SC ci chiede di diventare attenti al “non verbale”, come insieme di linguaggi attraverso cui maturiamo una più profonda intelligenza del mistero di Dio, rivelatosi in Cristo e accessibile a noi per il dono dello Spirito santo.

Attivare tutti questi diversi linguaggi “non verbali” è il compito di una nuova ars celebrandi, che riguarda ogni battezzato.



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