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IL DONO DELL’INCERTEZZA / PERCHÉ IL POSTMODERNO FA BENE AL VANGELO

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  John C. Sivalon, missionario Maryknoll, che ha lavorato in Tanzania, prima di diventare superiore generale della sua Congregazione dal 2002 al 2008, si cimenta con la sfida posta da questa domanda:

il mondo che sbrigativamente qualifichiamo come “postmoderno” è un problema o un’opportunità per la Chiesa e la sua missione?

Contestando il giudizio negativo che, almeno a livello di magistero, è stato prevalente nei confronti della postmodernità, soprattutto per il relativismo e il nichilismo che sembrano contrassegnarla senza rimedio,

Sivalon ci propone di cogliere invece nella postmodernità quegli elementi che permettono di rinnovare la missione cristiana e di capirla e viverla meglio:

“La cultura postmoderna non svuota di significato la missione cristiana; al contrario, essa apporta nuove intuizioni e prospettive, e una nuova vitalità all’idea conciliare che la missione è centrata nel cuore stesso di Dio.

La missione è l’abbraccio amoroso di Dio al creato, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Questo abbraccio non è meno reale oggi che negli anni Cinquanta o prima, e non è meno forte per la cultura postmoderna che per le altre culture del mondo” (p. 16).

Un tratto distintivo di questa cultura è l’incertezza, vissuta anzitutto dai missionari, che si trovano a operare in una cultura che non è la loro, a svolgere un ruolo di leader in un contesto nel quale sono come bambini che devono ancora imparare ad annunciare un Vangelo al quale non sono mai sicuri di corrispondere fino in fondo.

Ma l’incertezza è un dono, afferma Sivalon: dono nel quale si preannunciano altri doni, come la fede, la contemplazione, il discernimento, la creatività, il cambiamento, la crescita. Soprattutto, l’incertezza radica la missione nella missio Dei, che sola la può sostenere.

Il libro approfondisce questi spunti in sei brevi capitoli.

Il punto di partenza è la ripresa degli interrogativi sollevati a proposito della missione, a partire dal Vaticano II e di fronte all’incalzare della cultura postmoderna. Quest’ultima, a giudizio dell’autore, offre alcuni criteri ermeneutici e scientifici, utilizzati nel secondo capitolo per una riflessione trinitaria, orientata a determinare la missione in quanto fondata nella missio Dei.

Il capitolo successivo affronta la questione in chiave cristologica, dal momento che l’annuncio cristiano mette al centro la proclamazione della morte e risurrezione di Gesù Cristo: anche in questo caso, si tratta di leggere questo nucleo centrale con gli occhiali della postmodernità, per scoprire in che modo esso ci fa entrare ancor più profondamente nel cuore del disegno missionario di Dio rivelato in modo pieno nel “dono della morte” di Gesù Cristo.

I tre capitoli che seguono fermano lo sguardo sulle modalità della missione. Questa ha bisogno di una “nuova immaginazione”: basandosi sul principio dell’evangelizzazione “integrale”, Sivalon mette in luce i cambiamenti che i valori della cultura postmoderna domandano, prima di tutto sul piano dell’essere (e qui sono richiamate le esigenze di una rinnovata attitudine contemplativa e immaginativa), poi su quello del fare, che riguarda la missione in quanto proclamazione, testimonianza, dialogo, culto e sviluppo umano.

Ciascuno di questi elementi trova riscontro in testimonianze, che l’autore raccoglie nel quinto capitolo, dando la voce a missionari/e che hanno lavorato o lavorano in diverse parti del mondo – Guatemala, Sudan, Bangladesh e Cambogia.

Nel sesto capitolo, Sivalon elabora uno sguardo sintetico sulla sua percezione della missio Dei. Va qui sottolineata la dimensione ecclesiale della missione, da cogliere però non prima di tutto in categorie “teologiche”, ma nell’esperienza missionaria, come nelle testimonianze del capitolo precedente.

È una dimensione comunitaria caratterizzata dall’apertura all’altro: si tratta di comunità di missionari provenienti da un mondo dominato dalla cultura postmoderna, ma che vivono in contesti culturali molto differenti, figura concreta di una Chiesa la cui “apertura” vuol essere immagine vivente della Trinità accogliente e prefigurazione di una ecclesialità che si definisce non erigendo frontiere, ma orientandosi profondamente a Dio e mantenendosi al tempo stesso aperta alla presenza “disturbante” e feconda dell’altro.

Sivalon ha scritto non con l’illusione di riuscire a convincere quanti danno un giudizio negativo della cultura postmoderna, né chi ritiene del tutto sorpassata la missione della Chiesa: la sua speranza è, piuttosto, quella di offrire elementi di riflessione a chi sta in mezzo e cerca di riconoscere gli elementi di senso della propria fede all’interno della cultura di cui fa parte: e questo scopo ci sembra pienamente raggiunto.


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