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Giobbe, Missione come Comunione nella Sofferenza

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La vicenda di Giobbe propone il dramma della sofferenza dell’innocente; non si tratta di astratto ragionare sul dolore, ma di una vicenda umana concreta, che impedisce al lettore di rimanere spettatore distaccato di un dibattito accademico.

Secondo molti studiosi, il libro sarebbe il risultato di un lento processo di formazione, che si ricollega a un’antica tradizione: un racconto popolare che un fine poeta, dando la parola ai protagonisti, ha trasformato in un dramma di elevata tensione. Il protagonista, presentato come persona integra e devota (Gb 1,1), è vittima di una diatriba in cielo che provoca la sua rovina economica e il suo degrado fisico (cc. 1-2). A questo punto siamo invitati a seguire un dibattito tra persone definite “sagge”, non più in cielo, ma qui sulla terra. Il dibattito mette sul tappeto tutte le soluzioni che la sapienza antica ha proposto per rispondere al problema del male. A queste soluzioni, espresse dagli amici di Giobbe e da un giovane di nome Elihu, ribatte Giobbe protestando la sua innocenza, ma soprattutto mettendo in discussione che il mondo sia retto con giustizia dal suo Creatore, dato che nel suo caso non funziona l’equazione stabilita da tempo immemorabile tra condotta umana e premio o eventuale castigo.

Solo allorché Dio si manifesta (cc. 38-42), Giobbe si sottomette, affermando: “Ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (42,5).


I TRE AMICI: CATTIVI CONSIGLIERI

Nell’economia del libro, risalta un poema (Gb 28) che bene esprime quanto Giobbe aveva sentito dire di Dio durante tutta la sua esistenza, cioè la tipica risposta sapienziale ai problemi della vita: credi e obbedisci a Dio, perché solo Lui possiede la sapienza con la quale fu creato l’universo e attraverso la quale esso è regolato. Nell’ultima parte del poema (28,21-28) ciò è espresso con chiarezza: solo Dio possiede la sapienza. Secondo tale concezione l’essere umano non è del tutto sprovvisto di direzione, poiché a lui Dio ha rivelato una certa sapienza, come afferma il v. 28: “E [Dio] disse all’uomo: Badate! Venerare il Signore è sapienza, allontanarsi dal male è conoscenza!”.

Se tuttavia confrontiamo le affermazioni contenute in questa conclusione con l’inizio del libro di Giobbe, ci accorgiamo che sembra di tornare al punto di partenza. Giobbe è, infatti, presentato fin dall’inizio come uomo “integro e retto, [che] venerava Dio e stava lontano dal male” (1,1), cioè quella sapienza che Dio ha riservato agli umani è stata la norma che ha guidato la condotta del protagonista; su tale base egli proclamerà la sua innocenza di fronte a Dio nel c. 31. Il c. 28 rappresenta il tentativo di riassumere la posta in gioco del dibattito: agli amici di Giobbe – Elifaz, Bildad e Zofar –, questo bastava, ma Giobbe non poteva dirsi soddisfatto, data la contraddizione tra la sua condotta e la sua condizione attuale.

QUANDO IL TEOLOGO SI SOSTITUISCE A DIO

A questo punto del racconto, tuttavia, interviene un quarto interlocutore (Elihu), il quale attribuisce la sua sapienza a un dono di Dio (Gb 32-37). Il suo intervento non è, però, risolutore: tutte le sue parole dimostrano che Giobbe e i suoi amici hanno ormai esaurito le risorse della sapienza. I protagonisti dei dialoghi, Giobbe incluso, hanno in comune la convinzione che la sofferenza che si è abbattuta su di lui venga da YHWH e abbia un significato.

Il problema messo a tema nei dialoghi non è dunque se Dio abbia o no a che fare con il male, ma la responsabilità di Giobbe in tutto questo.

Per questo egli chiama continuamente in causa Dio: ha bisogno di un confronto diretto con lui. E qui interviene una rottura con gli altri scritti sapienziali, un evento in nessuno di essi previsto: Dio stesso interviene direttamente nel dibattito, con il peso di tutta la sua autorità.

DIO RISPONDE CON LA CREAZIONE

Nei suoi discorsi (cc. 38-42), Dio non sembra intenzionato a rispondere a Giobbe. Gli presenta le opere da lui create, lo sommerge di domande, per lo più retoriche e infine lo pone di fronte a un triplice limite: la sua durata limitata, il suo saperelimitato, il suo potere limitato. Per quattordici volte ricorre nei discorsi divini un quesito: chi ha stabilito, chi ha consolidato, chi ha plasmato? E la risposta è sempre la stessa: solo Dio! A poco a poco, di esclusione in esclusione, Giobbe vede restringersi il campo della sua competenza e dei suoi diritti. Nell’universo tutto avviene senza l’essere umano, e assai bene: quando i piccoli del corvo hanno fame, gridano verso Dio, non verso Giobbe (38,41). Gli animali non possono fare a meno di Dio, ma possono fare a meno di Giobbe e di ogni altro essere umano: l’onagro della steppa se ne ride dei guardiani, il bufalo rifiuta di arare solchi, lo struzzo umilia nella corsa cavalli e cavalieri. Così gli animali mostrano il limite della signoria umana e nello stesso tempo servono la causa di Dio.

Giobbe nei suoi lamenti aveva rimproverato a Dio di utilizzare l’universo per la sua vendetta; Dio risponde mettendo il mondo e gli animali a servizio della sua pedagogia, rifiutando di lasciarsi imbrigliare nella strettoia delle immagini in cui Giobbe era bloccato: quelle del Dio giudice, inquisitore, crudele, che Giobbe si era date per esprimere la sua angoscia. Dio non risponde a livello d’immagini, ma di realtà, la quale manifesta ciò che si può conoscere di Lui (cfr. Rm 1,19s.). In un mondo in cui ovunque si rivelano l’intelligenza e la tenerezza del Creatore, l’essere umano sarebbe dunque l’unico disprezzato? Giobbe ammette tutto questo, mettendosi una mano sulla bocca (40,4).

LA SOFFERENZA NON È UNA PUNIZIONE

Nonostante ciò, la risposta di Dio a Giobbe non è del tutto soddisfacente per il lettore, il quale s’interroga se basti il rinvio alla creazione per rendere il male comprensibile e soprattutto tollerabile. Va riconosciuto, però, che forse non è questo lo scopo del ricorso a Dio; con molta probabilità, il ricorso non intende direttamente spiegare il male, ma contrapporsi a un certo modo di giustificarlo: si vuole in tal modo rendere la divinità garante di una situazione in cui perlomeno la sofferenza non è percepita come punizione.

Nel libro non si discute sulla sofferenza, ma sul perché Giobbe soffre: domanda ricorrente per chi vive quotidianamente a contatto con la sofferenza.

Si tratta di un caso concreto, la cui soluzione tuttavia, se da un lato appaga i protagonisti (alla fine il narratore ci dice che Giobbe è reintegrato nella condizione positiva dell’inizio), non appaga il lettore: non è poi vero che alla fine tutto si volge al meglio per chi soffre, almeno non in questa vita (e il libro di Giobbe non volge lo sguardo al di là)!

LA RELIGIONE NON È UN ANESTETICO

Leggendo l’Antico Testamento (AT) e la sua franchezza nel trattare della sofferenza nel rapporto con Dio, un tipo di risposta emerge. La religione, almeno quella che si ricollega alla Bibbia, non è come un anestetico o un palliativo che semplicemente simula un benessere o nasconde il male. Nella Bibbia il credente impara, come Giobbe, a rivolgersi a Qualcuno quando soffre, e ciò non significa accusare o sfuggire al dramma dell’esistenza, ma essere consapevoli che Dio non è estraneo a ciò che si vive, anche se la sua presenza non va letta soltanto come punizione (come per gli amici di Giobbe), dato che chi soffre spesso non avverte alcuna colpa che giustifichi tale distretta. La creazione, nella prospettiva biblica, non è, infatti, un progetto compiuto, come potrebbe sembrare alla fine del primo racconto contenuto nella Genesi: si tratta di un progetto lasciato a metà, dove la parte degli umani, quale fiduciari di Dio nel creato, non è indifferente.

Nella Bibbia il negativo non emerge quando Dio fa, ma quando l’essere umano agisce e soprattutto quando si mette contro Dio.

Ciò non vuol essere primariamente un atto di accusa contro gli umani, ma un atto di fiducia: il mondo può essere raddrizzato, io posso costruire un mondo migliore, che troverà il suo compimento in un mondo che già Dio ha annunciato (cfr. gli ultimi capitoli di Isaia e il libro dell’Apocalisse).

PERCHÉ DIO NON È ESTRANEO ALLA SOFFERENZA

La vita non è soltanto una lotta per sopravvivere: essa è comunione (cf. Gn 2,23-25), relazione (famiglia, popolo di Dio e per Gesù: la Chiesa), è solidarietà, che nell’AT si chiama giustizia. Gesù approfondirà ulteriormente questa prospettiva, illustrando il modo in cui Dio, attraverso di lui, si fa vicino a ciascuno di noi, e conseguentemente noi possiamo farci vicini gli uni agli altri.



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