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Forum "Guai a voi, i poveri!", Interventi / 2

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TERESA

Per parlare dei poveri le Beatitudini e Mt 25 potrebbero bastare. Mi chiedo se, proclamando “beati” i poveri, soprattutto pensando ai poveri del tempo, Gesù non si riveli piuttosto sadico o invece alluda alla povertà come scelta; il cristiano, cioè, è chiamato a scegliere tra Cristo e il denaro e allora la povertà diventa scelta di non accumulare, ma di condividere con gli altri affinché non siano più poveri. Ma allora, oltre a non discriminare chi è povero, non si dovrebbe, dal punto di vista cristiano, condannare chi è ricco? GIADA Si può essere missionari senza essere cristiani o le due cose vanno insieme? Quanto nel salvare il mondo c’è dell’essere e quanto del fare?

DOMENICO CORTESE, redattore di “Missione Oggi”

Oggi la politica e la cultura risultano manchevoli sia nel trovare soluzioni ai problemi della povertà sia nel suscitare sensibilità etica. Dove possiamo trovare soggetti che rappresentino queste istanze e riflessioni?

FAUSTO PIAZZA, redattore di “Missione Oggi”

Don Colmegna ha detto che gli stili di vita non sono qualcosa da consegnare alla sfera privata, ma devono trovare un’espressione collettiva. Sugli stili di vita i credenti hanno molto riflettuto, partendo dall’idea che all’impegno politico mancava una coerenza nella vita personale. Oggi però siamo nella situazione opposta: c’è maggior attenzione alle decisioni riguardanti la vita quotidiana, ma è venuta meno la prospettiva politica, per cui queste si limitano a essere scelte di testimonianza. Bisogna tornare a unire le due dimensioni, altrimenti non si va avanti. Don Nicolini ha sottolineato la centralità della relazione. Chiedo: non è lavorando su questo che si può pensare di ricostruire il legame tra sfera “privata” e sfera “pubblica”, perché pensarci come individui è legato al modo di concepire le relazioni nel mercato?

ANNE ZELL

Anch’io ho colto l’importanza della relazione. Ciò non significa un nuovo individualismo, ma prendere sul serio le persone nella loro storia e responsabilità di cittadini (intesi come coloro che vivono la città, non che hanno la cittadinanza). Quindi non relazioni meramente private, ma che coinvolgono ogni ambiente in cui la persona è inserita. Fondamentale è anche la spiritualità, una spiritualità calata nella concretezza: lì si manifesta quello che come credenti riceviamo dalla Bibbia. È, infatti, sempre nell’incontro, nella relazione, infrangendo esclusioni, che Gesù crea possibilità di vita diversa e responsabile.

GIOVANNI NICOLINI

Sono figlio spirituale di don Dossetti, protagonista della Costituente e del Concilio. Ma oggi la gerarchia della Chiesa ha dubbi nei confronti del Concilio e il governo ha forti perplessità sulla Costituzione. Sento un enorme bisogno di laicità e credo che questo sia oggi per i cristiani un dovere supremo. La laicità implica anzi tutto una formazione cristiana essenzialmente centrata sulla Parola di Dio e questo mi pare oggi il problema più aperto e delicato nella comunità cristiana. Laicità significa anche volontà e capacità di comunicare le perle del Vangelo con linguaggi che permettano anche a chi non appartiene alla mia fede di interloquire. I primi 11 articoli della Costituzione italiana sono un capolavoro di laicità, formulati da un piccolo gruppo di cristiani, senza mai una parola sacrale, ma densi di Vangelo. E siccome sono stati espressi in un linguaggio rigorosamente laico, anche chi cristiano non si riteneva ha potuto riconoscersi in quei principi e ritrovarvi l’anima di questo popolo che usciva da 20 anni di dittatura e dal dramma immane della guerra.

I padri costituenti respingevano l’idea che la Costituzione fosse stata un grande “compromesso”, sostenendo che si era trattato di un grande “incontro”, perché si era stati capaci di proporre vie, predilezioni, attenzioni che sono nella grande tradizione del nostro popolo, quindi condivise da credenti come da chi credente non si ritiene. Oggi abbiamo perso questa laicità. La comunità ecclesiale, impaurita dalla problematicità della storia, è tentata di lasciare il Vangelo per la legge o di ridurre il Vangelo a legge, dicendo sostanzialmente quasi sempre “no, non si può”. Con un problema esegetico serio, perché Paolo dice che in Gesù “tutto è diventato sì”, le promesse dell’Antica alleanza si sono tradotte in una grande “sì” universale della storia (cfr. 2 Cor 1,20). Questo problema oggi è molto delicato, perché la differenza tra la Chiesa della legge e quella del Vangelo sta nel fatto che la prima giudica e condanna, mentre la seconda si mette al fianco delle persone e propone la possibilità di un tratto nuovo di cammino.

La differenza tra la legge e il Vangelo è che la prima, anche quando è santa, arriva inevitabilmente a un confine. Il Sal 147 nella traduzione corrente dice: “Hai messo pace ai miei confini”, ma il testo ebraico propriamente dice: “Hai messo come miei confini la pace”. Per cui quando alla frontiera ho trovato la pace anziché la sbarra, sono stato costretto a proseguire nella mia migrazione tra le persone, le culture, le diversità perché quella barriera è stata tolta dalla capacità di pace del Vangelo. Quello che ammiro nel Vangelo è la sua capacità di mettersi nelle situazioni e persone più remote, diverse, sbagliate o cattive, di stare accanto a ogni esperienza per incoraggiare e annunciare la possibilità di un cammino. Il Vangelo consente a tutti di camminare insieme, si supera questa angosciante alternativa del “sì-no”, “sei dentro-sei fuori”. In una parrocchia come la mia, della periferia bolognese, il momento delle cresime è diventato angosciante perché non c’è più nessuno “dentro”, cioè in condizioni “regolari” secondo le norme canoniche, per cui nessuno può più fare il padrino, sono tutti “fuori”.

Ma secondo il Vangelo nessuno è arrivato, siamo tutti in cammino. Il Vangelo è una proposta di viaggio per ciascuno e nessuno ha la verità in tasca, non perché la verità non esista, ma perché essa, coincidendo con Gesù “via, verità e vita”, è sempre più grande di noi e delle nostre definizioni; infatti “parrocchia” deriva dal greco e significa “quasi casa” perché deve essere come una tenda di cui dobbiamo ogni giorno togliere i paletti e i teli per ripartire, perché se siamo fermi Gesù va via. Allora laicità è il mio desiderio di comunicare le perle del Vangelo anche agli amici atei, con cui ho rapporti preziosi e considero fratelli e sorelle, con cui discuto del mistero della vita. Davanti alla morte siamo tutti atei. Quello che lo è meno di tutti, Gesù, secondo Mt e Mc, dice prima di morire l’inizio del Sal 21,1: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Lo dice perché nell’obbedienza al Padre si è immerso nella storia fino a essere vicino a chi si sente abbondato da tutti, Dio compreso, e quindi solo. Questo è l’abisso che Cristo ha toccato.

La grande scommessa, raccolta nella parola “laicità”, è quindi la capacità di comunicare con tutti, nella storia di tutti, lo splendore del Vangelo quale oggi può essere inteso.

Non posso pretendere da voi che mi eleggiate sindaco di questa città (Brescia) perché credo nella SS. Trinità; credo che la SS. Trinità sia importante per amministrare Brescia, ma devo tradurre questo in termini di laicità attraverso le condizioni di vita dei bambini, degli stranieri, dei malati, delle famiglie giovani, ecc., a Brescia. Deve cioè diventare un discorso che l’altro possa intendere sul piano umano. La grande scommessa oggi è il viaggio del Vangelo, il viaggio delle Beatitudini, che ci fa incrociare la ricchezza multiforme di Cristo nei fratelli poveri, miti, misericordiosi, ecc., per cui incontrando il povero posso dirgli: “Sai che hai dei cromosomi un po’ speciali, che ti fanno parente di Gesù!”.

In Mt 25 il Figlio dell’uomo non convoca i cristiani, i quali devono amarsi e dare la vita come lui ha fatto, ma i popoli che non l’hanno mai visto e si sentiranno dire che anche loro hanno onorato e servito il Figlio di Dio perché hanno dato da mangiare, bere, ecc. ai fratelli. Secondo alcuni padri della Chiesa, i cristiani sono i piccoli cui i popoli danno da mangiare, bere, ecc. Se fossimo cristiani davvero saremmo “poveri Cristi” che hanno bisogno di un bicchiere d’acqua o di un paio di calze.

Venendo alla questione se si può essere missionari senza avere la fede, direi che a volte i miei amici atei, molto ispirati (dallo Spirito di Gesù), affermano e fanno cose meravigliose e mi sono maestri sotto molti aspetti. Naturalmente desidero comunicare loro la buona notizia che Gesù accoglie come una madre affettuosa il vissuto di ognuno, mentre i miei amici atei sperimentano la fatica della solitudine. Vivendo così anch’essi celebrano, in qualche modo, Cristo, per cui il mio annuncio è il riconoscimento che, essendo anch’essi figli di Dio, sono toccati dall’economia dello Spirito Santo, oltre i confini della comunità cristiana.

Essere laici oggi è essere appassionatamente cristiani sentendosi appassionatamente fratelli di ogni uomo e donna.



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