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Forum delle Redazioni: Il dialogo interreligioso è irrinunciabile

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Forum "Dialogo Interreligioso" - MICHAEL L. FITZGERALD E MARIA A. DE GIORGI RISPONDONO ALLE DOMANDE DELLE REDAZIONI DI “MISSIONE OGGI”, “CEM MONDIALITÀ”, “MISSIONARI SAVERIANI” e “MISSIONE GIOVANI”.

Federico Tagliaferri (redazione di “Missione Oggi”): Sono ormai quattro decenni che la Chiesa è impegnata nel dialogo interreligioso. Lei ha notato un’evoluzione, in particolare nei rapporti con l’Islam? E la “Lettera dei 138 saggi musulmani” può essere considerata un momento di svolta?

Mons. Fitzgerald: Anche se prima c’erano stati alcuni pionieri, indubbiamente è dal Vaticano II che il dialogo interreligioso è divenuto un fatto di Chiesa. Si dice spesso che l’iniziativa del dialogo vienesempre dai cattolici, ma non è questa la mia esperienza: nel Segretariato per i non cristiani, poi Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, gli inviti al dialogo venivano dai musulmani, il che è curioso perché a livello della base non c’era molto dialogo, o almeno c’era solo in alcuni luoghi, dovecristianie musulmani convivevano positivamente. Forse a stimolarlo era il prestigio della Santa Sede. Il principe Hassan di Giordania aveva fondato l’Istituto per lo studio delle religioni e il dialogo e cominciato un’interlocuzione con gli anglicani, cercando e trovando un pari rango nel principe di Windsor, poi l’aveva allargata gli ortodossi, ma voleva un dialogo anche coi cattolici. Il Card. Arinze rispose positivamente, ma a condizione di coinvolgere la Chiesa locale. Credo che questo sia molto importante perché dava ai cristiani giordani la possibilità diesprimersi, cosa non sempre facile per loro e a volte neppure cercata.

Lo stesso è avvenuto con la Libia, che nel 1976 promosse un convegno conclusosi con una dichiarazione dicondanna delsionismo come forma di razzismo. Cosa che suscitò forte opposizione al dialogo, perché molti accusarono la Santa Sede di essersi lasciata manipolare da Tripoli, cosa non vera. Ci vollero quasi dieci anni per ricominciare il dialogo tra Roma e Tripoli,cosa che avvenne attraverso l’“Appello all’Islam”, a partire da un gruppo internazionale con sede in Libia. Abbiamo risposto pure agli iraniani, che sono i più preparati al dialogo, anche perché hanno tradotto molti testi cattolici, dal Catechismo della Chiesa cattolica - la piccola comunità cattolica locale non avrebbe avuto le condizioni economiche di tradurlo, mentre l’hanno fatto gli studiosi musulmani iraniani, consultando il vescovo locale, il che è molto bello - a libri di teologia moderna. Anche da parte dei Sikh o di movimenti buddhisti, come il Rissho Kosei-kai, sono venute iniziative di dialogo verso di noi.

Perciò l’idea che il dialogo sia un moto unidirezionale dalla Chiesa cattolica verso le altre religioni non è vera. L’iniziativa dei 138 saggi musulmani è cominciata quando 38 intellettuali hanno scritto a Benedetto XVI, dopo il discorso di Ratisbona, una lettera molto garbata in cui dicevano che il Papa sbagliava la propria valutazione dell’Islam; un anno dopo il numero dei firmatari era salito a 138 e hanno scritto una nuova lettera invitando al dialogo teologico e pratico (amore di Dio e amore del prossimo) non solo la Chiesa cattolica, ma tutti i cristiani. Questo non esaurisce il dialogo tra cristiani e musulmani, che avviene in misura considerevole anche a livello locale, ma il Forum cattolico-musulmano svoltosi a Roma in novembre ha dimostrato che uno scambio su temi teologici è possibile, mentre a volte questo è negato. Naturalmente noi ci incontriamo per conoscerci più profondamente, non per arrivare a una religione comune.

Franco Ferrari (redazione di “Missione Oggi”): Nel dialogo con l’Islam, specie di fronte alle posizioni fondamentaliste, molti sostengono l’opportunità di stabilire rapporti con le correnti più moderate o propense all’incontro. Lei crede sia possibile scegliere gli interlocutori nel dialogo interreligioso o questo tocca più alla politica?

Mons. Fitzgerald: La scelta del partner è difficile, dipende dalle circostanze. In Vaticano dialogavamo con organismi ufficiali dei paesi islamici, quasi mai abbiamo invitato singole persone, ma abbiamo dovuto affidarci allescelte del partner musulmano, con sorprese a volte anche sgradevoli, come quando ci trovammo nella delegazione libica diversi cristiani convertiti all’Islam, il che ci mise a disagio. Ma in generale nel dialogo ufficialesi accetta il partneresicerca di dialogare con esso. D’altro canto se i nostri partner scegliessero di dialogare con Hans Küng,cheio rispetto e dicuisono amico, il Vaticano non sarebbe contento, perché non si sentirebbe da lui rappresentato. Sono liberi di invitarlo, ma non nelle stesse circostanze. Un dialogo invece più informale, come quello del Gruppo di ricerche cristianoislamico, formato da individui, è più libero di scegliere i propri interlocutori. Nel dialogo dobbiamo rispettare le diverse istanze. C’è pure il pericolo di scegliere persone con cuicisentiamo in sintonia perla loro capacità critica, ma che a volte non hanno grande influenza nella loro comunità. Quindi bisogna dareloro la possibilità diesprimersi, ma èimportantecercareil dialogo anchecoi settori fondamentalisti. Credo sia difficile che possa farlo il Vaticano, ma ci sono altri soggetti, per esempio giornalisti cattolici, che hanno interloquito coi Fratelli musulmani.

Brunetto Salvarani (direttore di “CEM Mondialità”): Vorrei centrare il discorso sul rapporto tra dialogo e annuncio, partendo dall’omonimo documento del 1991. Oggi sembra prevalere il paradigma dello “scontro di civiltà” e ciò colpisce anche il dialogo interreligioso. Se fosse riscritto oggi “Dialogo e annuncio” dovrebbe essere modificato? Condivide l’impressione che rispetto ad allora il clima anche nella Chiesa cattolica sia meno propizio al dialogo e molto più centrato sull’identità?

Mons. Fitzgerald: Credo che “Dialogo e annuncio” vada letto insieme al documento del 1984 “L’atteggiamento della Chiesa verso persone di altre religioni. Una riflessione su dialogo e missione”. Questo testo è molto importante perché colloca il dialogo all’interno della missione della Chiesa; non è esterno né facoltativo, ma parte della missione. Inoltre esso ha un afflato spiritualeche manca in quello del 1991, frutto di molti compromessi e assai cauto perché nel frattempo ci si era cominciati a chiedere che ruolo avesse l’annuncio se il dialogo faceva parte della missione della Chiesa. Credo chela dottrina di “Dialogo e annuncio” sia valida ancora oggi,con la sua interpretazione dell’insegnamento del Concilio Vaticano II e dei Papi, ches ottolinea la possibilità disalvezza al di fuori della Chiesa, ma non la fine della missione di Gesù Cristo. Oggi il sospetto di relativismo forse rende difficile il compito dei teologi che vogliono dare un fondamento al dialogo interreligioso e talvolta vanno troppo oltre sacrificando l’essenziale del cristianesimo. Anche i miei confratelli che sono favorevoli al dialogo, oggi preferiscono parlare di incontro, perché l’uno dà l’idea di discutere qualcosa per arrivare ad affermazioni comuni, mentre l’altro dà più l’idea del rispetto delle diverse posizioni.

La mia critica a “Dialogo e annuncio” è che dà l’impressione che il dialogo sia solo bilaterale, mentrece n’è anche uno multilaterale: il primo consente un maggiore approfondimento, mentre l’altro, peresempio negli incontri promossi dalla Comunità di Sant’Egidio, permette di lavorare insieme per contrastare lo scontro delle civiltà. Incontro e annuncio concettualmente sono diversi, ma nella realtà stanno insieme, perché quando io incontro una persona, se sono cosciente della mia identità, dico il mio cristianesimo.

Maria A. De Giorgi: Alcune situazioni attuali derivano da un certo realismo frutto del cammino di questi anni. Dopo il Concilio, quando si è cominciata l’avventura del dialogo, era inevitabile porre l’accento su ciò che unisce,ciò che è bello dell’altro; poi il cammino ha condotto a prendere coscienza dei limiti e dell’abuso del dialogo, capendo che esso ha senso più a partire dalla divergenze, perché se siamo d’accordo non serve incontrarci. Ciò ha spinto alcuni ad un rallentamento, altri a un ripensamento e altri ancora a una frenata perché in alcune situazioni si era andati troppo oltre. Penso che una pausa di riflessione non faccia male. Io riscriverei allo stesso modo “Dialogo e annuncio”, ma approfondirei molto di più alcune grandi intuizioni di Paolo VI, come l’idea del dialogo della salvezza. “Dialogo” e “annuncio” sono in feconda tensione, non in contraddizione.

Giusy Baioni (direttrice di “Missione Giovani”): Qual è la situazione dei cristiani in Egitto?

Mons. Fitzgerald: L’Egitto è il paese arabo col maggior numero di cristiani, circa il 10% della popolazione, cioè 8 milioni di persone, nella stragrande maggioranza copti ortodossi. La decisione del governo di abbattere i maiali, che sono in gran parte allevati dai cristiani, ha suscitato alcune proteste, ma il governo ha promesso risarcimenti e programmi per spostare gli allevamenti all’esterno delle città e non nei pressi delle discariche. Certo essere cristiano egiziano non è facile. I cattolici sono circa 250.000, ma l’influenza della Chiesa cattolica è ben più grande, soprattutto tramite le scuole cattoliche, in cui ci sono molti studenti ortodossi e musulmani, e l’azione sociale della Caritas, attiva in tutto il paese al servizio non solo dei cristiani.

Negli ultimi 20 anni è cresciuta la tensione tra cristiani e musulmani: gli anziani dicono che quando erano giovani non era difficilefrequentarelescuole cattoliche, mentre ora vengono più spesso richiamati. Inoltre la società diventa, almeno nei segni esteriori, più islamica, per cui le ragazze musulmane portano il velo all’Università e quelle cristiane possono essere oggetto di insulti o di pressioni. Il vero dialogo si fa non sul piano religioso, ma nel lavoro comune di cristiani e musulmani all’interno di associazioni non governative che difendono i diritti umani di tutti i cittadini, cercando di conciliare quanto è scritto nella Costituzione egiziana e il richiamo alla sharia, alla legge islamica.

P. Marcello Storgato (direttore di “Missionari Saveriani”): Nei 21 anni trascorsi in Bangladesh ho scoperto, per esempio nell’Islam sufi, una profondità spirituale che favorisce dialogo, annuncio, incontro. Questo è confermato dalla vostra esperienza? Al contempo abbiamo verificato che quando inizia una guerra, il dialogo viene azzerato. Terzo aspetto: in Italia, incontriamo giovani, soprattutto ragazze, musulmane che faticano a trovare interlocutori cristiani della loro età, da cui conoscere l’esperienza di fede.

Maria A. De Giorgi: Anche in Giappone ho scoperto con gioia esperienze bellissime in cui opera lo Spirito, per cui un atteggiamento di dialogo diventa pure azione di ringraziamento. Per fortuna il Giappone non vive una guerra, ma capisco che quando ciò succede non èfacile mantenere un atteggiamento di dialogo, anche se qui entra in gioco, per il cristiano, l’amore verso il nemico. La latitanza del mondo giovanile non mi stupisce, perché il dialogo presuppone una matura identità di fede che spesso i giovani non hanno, soprattutto oggi, esposti al pluralismo della società. Ciò dovrebbe spingere noi a un maggiore impegno nella formazione alla fede e al dialogo. In Giappone, dopo venti anni di lavoro, è nata l’esigenza di avere corsi di formazione al dialogo, quasi stessimo passando da una fase carismatica a quella in cui bisogna prepararele persone.

Mons. Fitzgerald: Quando ero in Sudan ogni tanto andavo ad ascoltare uno sheikh musulmano che dava lezione vicino alla chiesa. Era una persona molto austera e visitava la gente come un parroco. Quando ho dovuto rientrare a Roma, sono andato a salutarlo e lui ha pregato per me, affinché diventassi musulmano, ma questo era per lui l’augurio più bello perchéla sua fedeera per lui la cosa più preziosa. Il sufismo, nel quale gli occidentali si trovano più a proprio agio, tanto che ci sono conversioni all’Islam tramite esso, è guardato con sospetto nel mondo arabo; in Egitto, però, un comboniano italiano, p. Giuseppe Scattolin, che ha pubblicato un libro di testi sufi in arabo,èstato invitato a tenere conferenze anche ad Al-azar, il che mostra una possibilità.

Io stesso, pur non essendo esperto di sufismo, sono stato invitato a tener una conferenza in una Università statunitensee ho scelto di parlare dei “bei nomi di Dio” e del loro senso per un cristiano; quindi partivo dal Corano per cercare nella Bibbia l’equivalente di questi nomie approfondivo come si può ricevere un incitamento alla preghiera da questa tradizione islamica. Il pubblico era composto da cristiani e musulmani e qualcuno ha chiesto come, essendo cristiano, potessi commentare il Corano; ho risposto che il Corano per i musulmani è un libro sacro, ma è un testo importante per tutti; e siccome era presente l’ambasciatore dell’India, ho detto che avrei potuto prendere anche l’Upanishad e scoprirvi le verità che contiene, senza per questo essere indù. Anche un musulmano può scoprire nella Bibbia o negli scritti della nostra tradizione valori importanti.

Perciò dobbiamo avere la possibilità di questo dialogo sui valori, che scopriamo negli altri. Per la guerra, è vero. Per esempio, in Medio Oriente il conflitto israelo-palestinese è una controtestimonianza e rende difficili il dialogo e i rapporti tra i popoli. Quando Paolo VI lanciò la proposta di una giornata mondiale per la pace, Maodhoudi, leader musulmano del Pakistan, si disse favorevole, affermando però che finché ci fosse stato guerra tra Israele e Palestina non ci sarebbe stata pace nel mondo. Credo avesse abbastanza ragione. Mi rallegra vedere soprattutto giovani musulmaniche vengono a Roma a studiareil cristianesimo; sono convinti della loro fede, ma sperimentano il vivere coi cristiani. Questo mi fa sperare nel futuro, perché ci saranno musulmani capaci di fare da mediatori nel dialogo.

Ruggero Cavani: Evidenzierei due aspetti: lo sforzo culturale e teologico che chi è credente in modo consapevole compie in questa relazione con uomini di fedi diverse, perché l’incontro implica un cambiamento di mentalità circa l’annuncio e la missione; e l’umiltà, che è indispensabile se si vuole stare insieme tra diversi, perché il vestire, mangiare, ecc. in modo differente può portare a confliggere.

Maria A. De Giorgi: Di recente la Conferenza episcopale giapponese mi ha chiesto di organizzare corsi di formazione al dialogo interreligioso per pretiereligiose. Essi prevedono momenti di studio e visite ad ambienti di diverse religioni. Siamo andati a visitare anche la Rissho Kosei-kai. Ci hanno mostrato un video, in cui la prima affermazione era che“una religioneche non è missionaria non è una religione”. Eppure è uno dei movimenti più impegnati nel dialogo, il che mostra che tra dialogo e annuncio non c’è contraddizione. E nella loro sede centrale a Tokio c’è una targa in cui si dice “andate in tutto il mondo ad annunciare Buddha”. Una religione che non desidera comunicare quello che ha di più importante non è una religione.

Mons. Fitzgerald: Mi sembra importanteil riferimento all’umiltà; non possiamo imporre la nostra religione all’altro, deve essere una testimonianza, che è più forte della predicazione, pur necessaria, ma successiva. Nell’Islam c’è l’invito a convertirsi e quindi i musulmani fanno la missione, ma noi non possiamo rinunciare alla nostra fede. Qui c’è la questione dell’identità, ma essere radicati nella propria fede non significa mettersi sulla difensiva. Dell’umiltà del dialogo fa parte l’accettare situazioni che non controlliamo e un po’ di rischio c’è.

Michela Bono (redazione di “Missione Oggi”): Scoprire che Dio ha 99 nomi e non solo quello che conoscevo io mi ha aiutato a parlare coi giovani, perché elimina le rigidità de “il mio Dio” e “il tuo Dio”, che crea contrapposizione.

Mons. Fitzgerald: In effetti il parlare dei “99 nomi di Dio” da parte della tradizione islamica ci aiuta a ricordare che non abbiamo mai finito diconoscere Dio e anchese noi cristiani diciamo di avere la verità in Cristo, dobbiamo chiederci se abbiamo capito tutto di questa verità. In realtà c’è sempre da scopriree alla nostra conoscenza di Dio possono contribuire le altre religioni. Non dobbiamo fare solo una traduzione letterale di una parola, ma vedere in che modo questo termine è compreso nell’altra tradizione. Per esempio, “rivelazione” non vuol dire la stessa cosa nel cristianesimo e nell’islam.

Maria A. De Giorgi: In effetti questo è un problema enorme, tanto che in Giappone dai tempi di San Francesco Saverio non si è ancora trovato un termine adatto per il concetto cristiano di Dio e anche quello attualmente usato è assai ambivalente. Forse con l’islam è più facile, perché esso si muove all’interno di categorie semitiche, ma il mondo buddhista prescinde dal concetto di Dio. Il problema di fondo è il rapporto tra l’esperienza di Dio e la sua verbalizzazione, il cercare di comunicarla e anche questo è un compito del dialogo: cercare di capirci sull’essenziale, andando al di là delle parole, ma servendoci di parole e questo è un cammino mai terminato.

Coordinatrice dell’ufficio per il dialogo interreligioso della diocesi di Brescia: Il dialogo interreligioso, almeno a Brescia, è ancora esperienza elitaria, ma la gente che vive nelle parrocchie, a contatto con persone di altre religioni, è indifferente. Come aiutare a far crescere questa sensibilità?

Mons. Fitzgerald: Dobbiamo cercare diversi modi di incontrare le persone, magari a partire dai loro bisogni: per esempio io conosco parrocchie che hanno concesso l’uso di sale parrocchiali per matrimoni indù. Così comincia il rapporto di amicizia. A Chicago un iraniano è diventato l’amministratore della moschea e l’ha aperta per un giorno a tutti affinché i vicini la conoscessero. È venuto anche il rabbino, il quale ha chiesto se sarebbe stato possibile per gli ebrei venire a pregare in una sala della moschea visto che la sinagoga doveva essere ristrutturata. La richiesta è stata accettata, per cui per sei mesi gli ebrei l’hanno usata e questo ha creato un’amicizia che continua.

Maria A. De Giorgi: Linee pastoralici sono, ma bisogna metterle in atto. “Dialogo e annuncio” parla di quattro livelli di dialogo: della vita, delle opere, delleesperienza spirituali e degli scambi teologici. Nel 1991 per due anni abbiamo studiato il documento chiedendoci che cosa la Chiesa ci domandasse di fare, quindi è nato un gruppo interparrocchialeche ha cercato di incontrare i vicini di altrereligioni, a livello di base; così sono nate conoscenze che hanno favorito una crescente collaborazione sul territorio. Si tratta di verificare che cosa si può fare nella situazione concreta dove si vive.

Brunetto Salvarani: A Novellara, nella campagna reggiana, dovec’èil più grandetempio sikh d’Italia, l’amministrazione comunale, siccome ritiene il dialogo interreligioso importante anche per la costruzione della cittadinanza, dedica alla fine del Ramadan, alla Pasqua e al Natale, al Capodanno cinese e al Baisakhi sikh un momento gestito dal Comune, in cui lecomunità sono invitate a presentarsi, a scambiarsi doni e a mangiare insieme. È un’esperienza in controtendenza, ma crea relazioni importanti in una cittadina di 16mila abitanticon 3mila stranieri.

Mons. Fitzgerald: A Londra da 25 anni l’arcidiocesi di Westminster organizza una marcia per la pace da un luogo sacro a un altro, che cambia ogni anno, quindi da una chiesa battista alla sinagoga o dalla moschea al tempio buddhista e ogni volta un membro di ogni comunità la presenta agli altri. I partecipanti sono in aumento e camminando si parla. Si tratta di fare qualcosa insieme.

Maria De Giorgi: Mi aveva molto ferito leggerechein nome del dialogo in Italia sismetteva di allestire i presepi, perché i bambini buddhisti del nostro villaggio, vedendo il presepe,ci hanno chiesto di spiegareloro checosa fosseil Natale. Non si tratta di sopprimere le tradizione, ma invitare e presentarle.

Giusy Baioni: A Desio da qualche anno si tiene una marcia della pace, cui partecipano cristiani e musulmani.

C’è un signore che non manca mai, ma si lamenta sempre che nessuno pensi a lui, ateo!



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