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Se sono bastate dodici vignette per infiammare il mondo, la ragione sta certo nel potere dei simboli e nel clima già surriscaldato dei rapporti tra l'Occidente e l'Islam. Le stesse vignette satiriche che a noi occidentali suscitano una sonora risata, vengono invece percepite come un'offesa insopportabile dai credenti musulmani. Forse la reazione veemente che si è avuta in tanti Paesi islamici è stata solo apparentemente una rivolta spontanea mentre in realtà si è trattato di un abile stratagemma dei governi per aizzare la popolazione in chiave antioccidentale e meglio nascondere inadempienze e problemi di politica interna.

Non troviamo convincente neanche il tentativo occidentale di giustificare le vignette in nome della libertà di stampa, evitando di porsi ogni interrogativo sul riconoscimento dell'altro, della sua cultura, della sua dignità, dei suoi simboli. Ed è appunto il simbolo che assurge al centro dell'attenzione. Se infatti si vuole evitare che dalla guerra dei simboli e dalla società iconoclasta si passi presto al temuto scontro di civiltà, un cambio di rotta deve pur avvenire.

È questa la lezione che possiamo trarre dall'incredibile vicenda delle vignette: la necessità, cioè, di educarci ai simboli; di riconoscere il diritto di tutti ai propri simboli culturali e religiosi; di preparare la compresenza dei simboli , senza la quale ogni prospettiva di società interculturale e interreligiosa sarebbe negata in partenza. Senza simboli, infatti, non c'è cultura né religione.

Il simbolo dà a pensare”, amava ripetere Paul Ricoeur, ma forse in questa sentenza troviamo soprattutto le ragioni della nostra distanza più che del nostro incanto per i simboli.

Dal velo al crocifisso, dal presepe ai canti di Natale, dalle moschee alla stella di Davide, dalla Kippah al turbante sikh sono tanti i simboli che in Italia come in Europa sono finiti sotto i riflettori della cronaca per vari episodi di microconflittualità. E il fenomeno non si ferma ai simboli religiosi, ma si estende anche a quelli culturali, politici ed economici. La questione fondamentale che si impone è allora quella del “diritto al simbolo” e di conseguenza della “cittadinanza simbolica”, che richiede al contempo un nuovo statuto di “laicità” nella società post-secolare e infine un paziente e diffuso lavoro di educazione sociale alla “compresenza dei simboli”.

Occorre dunque capire che la forza dei simboli nel tempo della globalizzazione, del pluriverso e del meticciamento richiede necessariamente il rispetto e il riconoscimento della dignità dei simboli degli altri: a livello di abbigliamento, di alimentazione, di calendario, di rito religioso, di sistema familiare ecc..

È chiaro che per non scadere nell'ingenuità e nel buonismo bisogna fissare un “limite” invalicabile, per non ritrovarci poi con le mani legate dinanzi a realtà inaccettabili come le mutilazioni genitali femminili, il sistema del jihad nella concezione dello Stato, l'apartheid e la gerarchia tra le caste ecc. Ecco allora che tutti i simboli tornano ad acquistare un legittimo diritto di cittadinanza, purché, ovviamente non rechino offesa né alla dignità della persona, né alla Dichiarazione universale dei diritti umani, né alla Carta costituzionale del nostro Paese.


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