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Caro P. Mario, ti scrivo dopo avere letto, con stupore, alcune delle lettere del numero di aprile. Già P. Augusto Luca aveva iniziato a febbraio liberando la sua soddisfazione, dopo 30 anni di sofferente silenzio “per non creare discordia”, poi P. Vittorino Mosele che si congratula con te per la “svolta” dopo che la rivista ha “deviato fortemente” nella sua recente storia, che ti vede preso tra il martello degli “altri elementi” che hanno lavorato in questi anni per la rivista e l’incudine di chi ne ha subito i colpi tenendo ferma la barra della “specificità” saveriana. Infine P. Nello Berton, che si congratula per la nuova linea sperando in un ritorno alla casa del Padre dei tanti figli prodighi dispersi in questi anni, augurandoti in bocca al lupo, che, come nelle migliori fiabe, tu dovrai uccidere per liberare te stesso e la tua rivista dal male che l’ha divorata.

Non sono solo stupito, sono addolorato e amareggiato dalla scoperta di questo quadro.

Nel salutare P. Nicola lo ringraziavo palesandogli che nella rivista avevo trovato un rispetto e un equilibrio che raramente avevo riscontrato in altri “luoghi” di riflessione pubblica, laici o religiosi che fossero. La frequentazione della redazione e la lettura della rivista - di “tutta” la rivista - per me, un senza religione, è stato un arricchimento importante. Non sembra sia stato così per i lettori che ho citato prima.

La parte della rivista che si è occupata in questi anni delle ingiustizie terrene, delle disuguaglianze tra esseri umani e degli sconvolgimenti del pianeta, da un punto di vista diverso da quello missionario, è stata vissuta da quei lettori come qualcosa di indigesto, o, nel migliore dei casi, di un oggetto “altro” rispetto a MO, da espungere e indirizzare ad altri luoghi. Questa parte è respinta in toto, e le parole usate per esprimerlo sono pesanti come pietre. Non so se questi lettori esprimono una parte piccola o meno dei frequentatori di MO ma forse non è nemmeno così importante saperlo.

Oggi però so che con una parte di essi non si è mai aperto un canale: né per un dialogo, né per un confronto e nemmeno per un sacrosanto litigio.

Per una parte di essi una porzione di MO è stata semplicemente un peso da sopportare, pagine da saltare a piè pari, un corpo estraneo. Quasi tutti hanno fatto intendere: trattare certe cose non fa parte della “missione ad gentes”, ma è evidente che non è così. Un’ipocrisia che nascondono a se stessi! Non siamo una rivista di cucina o di automobili! E anche lì, nelle riviste serie, ogni tanto si rammenta ai lettori che per l’acqua e il petrolio si sono fatte guerre, che la fame patita in Africa ha origine anche a Roma, che la mia libertà di guidare per le strade del mondo è pagata da migliaia di bambini costretti a imbracciare fucili. Fucili costruiti da noi, qui, nell’operosa Valtrompia!

Caro P. Mario, credo ci sia molto da indagare su cosa ha mosso queste prese di posizione, molto da riflettere, molto, molto lavoro da fare, fra le gentes di ogni contrada.

  • MIMMO CORTESE del Gruppo redazionale MO (Brescia).

ANCORA SULL’ANNUNCIO

Gentile direttore, ho letto con molta attenzione tutti gli articoli di MO (marzo 2009), curioso di capire cosa potesse significare “annuncio del Vangelo”, argomento sempre dibattuto in “casa missionaria” (sono un laico comboniano). A dire il vero sono rimasto molto contento nel leggere tante esperienze diverse e conoscere così tanti testimoni del Vangelo che, come Gesù, donano la loro vita perché il mondo abbia “vita in abbondanza”. Certamente è la vita della grazia che sta a cuore ad ogni missionario, ma tutti concordano che, laddove la vita del corpo o delle strutture o dei gruppi sociali mostra delle carenze, i discepoli di Gesù si mostrano generosi nel promuovere ed attuare progetti di solidarietà e sano sviluppo.

L’impegno sociale, che spazia dal settore della solidarietà all’impegno politico-sociale, non viene vissuto come conseguenza della fede in Dio, nel Vangelo, in Gesù, ma come “incarnazione” dell’Amore di Dio, che si vuole testimoniare non solo con le parole, le preghiere, i sacramenti, la catechesi, l’organizzazione in “comunità ecclesiali”, bensì, a volte, con la sola presenza e disponibilità a camminare insieme negli spazi culturali, religiosi e sociali dell’altro, con molta discrezione, con spirito di ascolto ed accompagnamento, quasi a dire: Dio Padre ti vuole bene e mi ha chiesto di starti vicino perché possiamo aiutarci a diventare più uomini e donne, figli e figlie suoi. Il linguaggio probabilmente sarà poetico e sentimentalista, l’intenzione è quella di sottolineare l’importanza della testimonianza, un po’ come piaceva a Paolo di Tarso.

Mi viene di parafrasare così l’inno della lettera ai Filippesi: “Alcuni missionari... non considerarono un tesoro geloso la loro scelta religiosa né la loro appartenenza alla Chiesa Cattolica né il loro essere cristiani, discepoli e amici di Gesù, e fu così che decisero di spogliarsi di ogni etichetta o segno distintivo e assunsero la condizione di ‘servi’, divenendo simili in tutto, eccetto che nel peccato, alle popolazioni nelle quali si inserirono. A volte furono accolti con simpatia e gratitudine, altre volte trovarono gente pronta ad accogliere la loro proposta religiosa e culturale, a volte furono rovinosamente avversati e uccisi. Il peggio per loro li rendeva simili al Maestro, rifiutato dai suoi ed ucciso da eretico e malfattore. Ma Dio li ha esaltati tutti e li fa vivere nel suo abbraccio paterno per l’eternità”.

Forse è di questo Papà, che dovremmo parlare di più. Con affetto fraterno.

  • FILIPPO GERVASI, Cursi (LE).


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