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LA PANDEMIA RISVEGLIA GLI INTELLETTUALI AFRICANI

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La pandemia sembra aver risvegliato un gruppo di intellettuali africani, che hanno deciso di inviare una lettera ai governanti del continente, affinché colgano l’occasione della pandemia come opportunità di ascoltare la voce dei loro popoli e rinnovare le società africane. I firmatari, in Africa o nella diaspora, sono 88, capeggiati dal Premio Nobel Wole Soyinka. Essi lanciano un appello ai leader dei 54 paesi africani, non solo per ripensare la salute come bene comune, ma anche per rivedere l’economia e la politica come servizi al popolo. La pandemia, infatti, ha messo a nudo le incongruenze delle politiche attuali, sorde alle necessità della popolazione, in gran parte segnata dalla povertà e dalla precarietà.

Circa la pandemia, gli intellettuali denunciano l’imitazione della modalità di contenimento del virus proveniente dai paesi del Nord del mondo, senza una specifica attenzione alle diverse situazioni, culturali della realtà africana. L’imposizione di un lockdown spesso brutale mette in evidenza le enormi diseguaglianze tra la popolazione, ove solo una piccola minoranza può permettersi di rispettare le misure di contenimento, mentre la stragrande maggioranza, che vive di lavori precari e informali, è obbligata ad uscire di casa e muoversi per sopravvivere. Non si è forse pensato, da parte di chi governa, che, a causa delle ripetute crisi sanitarie che hanno colpito il continente, gli africani potessero disporre di risorse e strategie proprie, già applicate in altre crisi, senza rincorrere – con riflessi coloniali – le modalità dei paesi del Nord.

La questione non è solo rispondere a questa emergenza, ma affrontare le condizioni di precarietà vissute dalla maggioranza degli africani, che li rendono più vulnerabili in situazioni simili. Bisogna affrontare le cause di tanta precarietà e vulnerabilità. È proprio nei momenti di crisi che bisogna ripensare lo stile di vita africano, partendo dai suoi contenuti specifici, dalle risorse che possiede il continente. La pandemia si trasformerebbe cosi in opportunità per rinnovare i diversi settori della politica sociale, aprendosi alle vere aspettative della popolazione, trasformandole in priorità. Si tratta di cambiare logica, mettendo al centro il valore di ogni persona, contro la logica del profitto e dei privilegi di chi è al potere.

Si tratta di imboccare la via di un altro modello di sviluppo, non più guidato dalle istituzioni che si ispirano alla finanza internazionale e al capitalismo espansionista. In un mondo in cui la lotta geopolitica si fa sempre più feroce, l’Africa dovrebbe poter dire la sua, senza necessariamente allinearsi dall’una o dall’altra parte. I leader africani devono e possono proporre ai loro popoli una nuova visione politica dell’Africa. È una questione di sopravvivenza. Perciò è necessario riflettere sul modo di gestire e far funzionare le amministrazioni nazionali, dello Stato, la distribuzione e l’equilibrio dei poteri secondo sistemi di pensiero adattati alla realtà del continente. La vera indipendenza si realizza solamente sul terreno della creatività politica e sociale, assumendo la responsabilità del proprio destino.

Lo stesso panafricanismo, secondo i firmatari, avrebbe bisogno di una nuova ispirazione. Lo mostrano le diverse risposte, in ordine sparso, all’urgenza sanitaria. È mancata una risposta collettiva. E se i progressi in materia di integrazione dei diversi paesi sono stati deboli, lo si deve al metro di misura con cui sono stati concepiti: il liberalismo economico. Anche se alcune esperienze in atto andrebbero conosciute e valorizzate. Inoltre, i firmatari esortano i leader e i rispettivi popoli a rompere con il modello di sviluppo fondato sul circolo vizioso dell’indebitamento estero, ad uscire da una visione della per la crescita e del profitto per il profitto. È importante ritrovare anche la libertà intellettuale e la capacità di creare, altrettante colonne della sovranità. I firmatari invitano perciò ad abbandonare l’imitazione sterile di modelli stranieri e ad adattare la scienza, la tecnica e i programmi di ricerca ai contesti storici e sociali africani, pensando le istituzioni in funzione dei bisogni delle comunità, con una governance inclusiva, uno sviluppo endogeno, diminuendo la dipendenza. Tutto questo sarà possibile, concludono i firmatari, se ci sarà la consapevolezza che il continente dispone di risorse materiali e umane sufficienti per una prosperità condivisa, egualitaria e rispettosa della dignità di ciascuno.

Queste proposte trovano un’eco profonda nella dottrina sociale della Chiesa, che promuove visioni diverse di crescita dei popoli, sempre più interconnessi, nel rispetto dei rispettivi valori culturali. Ciò significa combattere l’ideologia del “pensiero unico” e favorire un nuovo umanesimo africano. Già Paolo VI, ripreso da Benedetto XVI, faceva notare che «“il mondo soffre per mancanza di pensiero”. Serve dunque “un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l'interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l'integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione”» (Caritas in veritate 53). Il tempo di crisi – come stiamo sperimentando oggi con la pandemia – può paradossalmente diventare un tempo favorevole: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (Caritas in veritate 21).



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