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AMAZZONIA / PAULINHO PAIAKAN, UNA MORTE ANNUNCIATA

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“Queste sono morti annunciate, perché manca un’azione del governo a tutela delle popolazioni più fragili”. Così mons. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi (Consiglio indigenista missionario), ha commentato il decesso per Covid-19 di molti anziani indigeni, definiti “libri vivi dei popoli, una biblioteca del popolo”, ma anche “guerrieri e guerriere”. E tra questi si conta anche il capo kayapó Paulinho Paiakan, “padre, leader e guerriero”, come l’ha chiamato l’Apib (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil). 

Paiakan era stato protagonista prima della vittoriosa lotta per il riconoscimento delle diritti dei 240 popoli indigeni alle loro terre ancestrali nella Costituzione del 1988, cui seguì nel 1989 ad Altamira lo storico Incontro dei popoli indigeni dello Xingù, che sbarrò la strada al progetto dell’Eletronorte di edificare la centrale idroelettrica di Cararaô, e poi dell’inizio della battaglia, alla fine perduta, contro la costruzione di Belo Monte, la terza maggior diga idroelettrica del mondo (dopo quelle delle Tre Gole in Cina e di Itaipú, alla frontiera tra Brasile e Paraguay). 

Quando la sua notorietà era al culmine, nel 1992 fu accusato dello stupro di una studentessa e condannato nel 1998 a sei anni di carcere, poi scontati agli arresti domiciliari. Pur essendosi sempre proclamato innocente, questa vicenda ne oscurò la fama, oltre a scatenare una pesante campagna diffamatoria contro i movimenti indigeni. Tuttavia Paiakan non smise mai di combattere per i diritti della propria gente, ottenendo nel 2008, insieme ad altri capi kayapó, con in testa Raoni Metuktire, l’omologazione di Terra Indígena, dove oggi vivono circa 12mila persone.



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