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Imparare ad ascoltare...in carcere!

Imparare ad ascoltare...in carcere!

Parlare del “convento forzato” solitamente chiamato carcere provoca solo a sentirne evocare timore e paura; ma credo che solo colui che fa l’esperienza viva di questa realtà può sentire nel profondo quanto sia grande l’amore di Dio rispetto alle nostre infedeltà.

Svolgo il servizio pastorale del carcere da alcuni anni e posso affermare che il contatto diretto con questa realtà non mi lascia indifferente, anzi serve di aiuto per ridimensionare la nostra vita, le nostre relazioni, le nostre scelte, e capire quanto è preziosa e grande la nostra libertà, questo dono ricevuto da Dio.

A quanto pare, direi che sono giunto a questa convinzione profonda: essere cristiano vuole dire essere umano, una vita cristiana senza umanità è vuota e diventa un inganno! Per questo è importante umanizzare la nostra fede.

Da buon catechista preoccupato dalla voglia di insegnare nozioni dottrinali e formule teologiche, ho percepito inizialmente in me una tendenza che praticamente ci accomuna che è quella di volere occupare spazi, moltiplicare le parole ovvero erigersi a sapienti agli occhi di quelli che ci ascoltano. Questo atteggiamento padroneggiante è un vizio per chiunque pretende di voler insegnare invece di vedere e ascoltare innanzitutto il luogo in cui si trova. In realtà, il carcere richiede una grande capacità di ascolto della realtà e soprattutto delle persone che vi si trovano.

È solo in questa prospettiva di ascolto, ma anche di umiltà che si può intraprendere un cammino giusto e benefico per quelli che volontariamente vengono a sfogarsi oppure cercano di stare in compagnia con il desiderio di conoscere realmente la vita cristiana.

In questo anno, i fratelli che fanno questo percorso di catechesi con noi sono italiani, albanesi, nigeriani. Alcuni di loro esprimono il desiderio profondo di ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana, mentre altri non sanno nemmeno chi è Gesù oppure non hanno “mai aperto la Bibbia” nella loro vita.

Questo paradosso mi fa dire che il carcere è effettivamente un luogo di primo annuncio dove siamo chiamati a portare la misericordia e la tenerezza di Dio.

Molti di questi fratelli esprimono il desiderio di sentire la vicinanza di Dio. Molti di loro sono imprigionati da una idea di Dio costruita sull’immagine della loro colpa oppure del modo disumano con cui vengono trattati. Tanti di loro hanno bisogno di una parola di consolazione, di capire che Dio è un Padre che ci perdona e ci ama nonostante i nostri sbagli.

A volte, risulta difficile vedere che il carcere non contribuisca alla reintegrazione e alla rieducazione delle coscienze; oppure ascoltare storie dolorose di persone che pur riconoscendo la loro responsabilità si lamentano del modo poco umano con cui vengono considerati e trattati.

È una sfida grande saper accostare la terra sacra di queste persone senza pregiudizi e trovare parole giuste per starle vicini. La maggiore parte di queste persone vivono nella disperazione, si sentono abbandonati dai loro familiari e si sentono da soli. È in questa complessità che si svolge il nostro incontro settimanale scandito dalla condivisione del vissuto settimanale, dalla catechesi, dalla preghiera con il vangelo della domenica. Cerchiamo di creare uno spazio di condivisione in cui ci sosteniamo a vicenda con i consigli, con la preghiera.

Questa pastorale è per me un incontro di esperienze in cui fioriscono sentimenti di fiducia, di gioia e di voglia di camminare insieme.

È stupendo sentire le persone che esprimono il desiderio profondo di volere abbandonare la loro vita passata per abbracciare una vita dignitosa. Col passare del tempo, ho maturato l’idea che il Signore non mi chiamava ad insegnare o ad erigermi a sapiente, ma piuttosto ad ascoltare, vedere e sentire come egli stesso si manifesta nelle persone escluse e marginalizzate per farmi prossimo di loro.

Da questo, stipulo tre verbi che mi accompagneranno sempre nello svolgimento della pastorale: ascoltare-dialogare-proporre.

È solo nell’ascolto che si possono trovare le parole giuste per dialogare e non ferire l’altro per essere in grado di proporre un altro stile di vita conforme al Vangelo. Ringrazio il Signore per questa esperienza.


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Pubblicato
17 Febbraio 2018
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