Si chiama Bahati, ''Fortunata''
Tra i tanti miei ricordi di missione in Congo, ne estraggo uno che spesso mi torna in mente. Con cinque collaboratori mi ero recato a far visita ad alcune scuole elementari, nelle vicinanze boschive di “Itula”. Al ritorno, avevamo imboccato un sentiero infossato tra due enormi pareti di verde.
Erano circa le tredici, quando incontrammo una scolaretta di nove anni che tornava a casa. La bambina era magrolina, scalza e vestita poveramente, ma con una gonnellina pulita. Rallentando l’andatura, ci adeguammo al suo passo. Dopo averle rivolto il saluto in swahili, le feci alcune domande.
“Come ti chiami?”. Mi rispose: ”Bahati”, cioè Fortunata.
“Dove abiti?”. “A Bonde” (un villaggio a 6 chilometri dalla scuola). “Che classe fai?”. “La terza elementare”. “Quanti fratelli hai?”. “Dopo di me, i fratellini sono tre”. “Stamattina prima di andare a scuola hai mangiato qualcosa?“. “No”. “Allora, appena tornerai da scuola, mangerai con appetito, vero?”.
E lei, con rassegnazione: “Sì, ma non subito. Dovrò aspettare fino a sera, quando la mamma, tornata dai campi, preparerà la polenta di manioca per me e i fratellini”. “A che ora parti al mattino per andare a scuola?”. “Quando spunta il sole”, cioè alle sei. “Ti piace andare a scuola?”. “Sì, molto”. “È vero che la strada per recarti a scuola è lunga?”.
E lei, con la voce fioca, ma con spontaneità cristallina: “Andando a scuola, la strada è corta; quando ritorno, è lunga”.
Questa espressione mi riempì l’animo di compassione… Veramente, per la condizione in cui viveva, alla piccola Bahati di “Fortunata” le era rimasto solo il nome.