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San Cristo, dove è nato tutto

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P. Gianni Pedrotti, classe 1934 di Cortenedeolo, a fine estate è ripartito per il Congo RD, dopo un periodo di vacanza. L’abbiamo intervistato.

San Cristo è luogo dei ricordi... Sì e sono ricordi bellissimi. Ho fatto qui il seminario minore (terza media e ginnasio). Eravamo più di 200, stipati come sardine, ma c’era un bel clima. Ricordo don Bonfadini, vice-rettore, don Gazzoli, che ha sempre voluto San Cristo come seminario e non voleva allargarsi, al contrario di mons. Montini (cugino di Paolo VI), che spingeva per il trasferimento al complesso di Sant’Angelo (meglio noto ora come Istituto Paolo VI).

Come è nata la vocazione?
La mia famiglia era molto religiosa. Io ero l’unico maschio con 5 sorelle e sono rimasto orfano di padre a 6 anni. Avevo uno zio paterno, parroco a Esine. Un giorno, mi ha portato lì, perché lui sarebbe andato a Brescia per un intervento chirurgico e mi ha promesso di riportarmi a Cortenedolo al rientro. Ma in Val Camonica è tornato cadavere. Quindi, sono cresciuto in una canonica, attaccato alla chiesa… Ho fatto tutte le elementari a Esine, che è diventato il mio paese. E in questo ambiente è nata la scelta vocazionale. Ho frequentato da privatista prima e seconda media, grazie al curato di Esine. Don Gazzoli, poi, passando di lì, mi ha detto di decidermi e di entrare in seminario.

Poi cos’è successo?
La mia fede è stata messa alla prova perché a 16 anni (ero in quinta ginnasio) è venuta a mancare anche mamma. Era il 1950. I superiori non mi avevano detto niente per non turbare gli esami che altrimenti non avrei fatto. Un altro zio prete mi ha portato all’ospedale, dove ho trovato la mamma con un tumore. Per me la fede era credere nel Signore, pregare e ottenere. Io dicevo a tutti di pregare e così la mamma sarebbe guarita, perché Dio sapeva che avevamo bisogno di lei. Nemmeno una settimana dopo, la mamma morì e allora tutti i miei castelli in aria caddero. È stato in teologia che ho maturato una vocazione più radicale, con un distacco più accentuato, una vocazione missionaria.

E un giorno i saveriani acquistarono S. Cristo…
Mi rese felice che la congregazione che avevo scelto avesse deciso di porre le sue basi a Brescia, in un posto a cui ero legato. E mi sentivo a casa, mi piaceva passare qui durante le vacanze, ricordando gli anni dell’adolescenza.

Perché i saveriani?
Eravamo in tanti in seminario a voler diventare missionari. A me interessava solo quello, meno la scelta della congregazione. Poi, un giorno, a Esine, era venuto p. Pierino Grappoli, originario di lì, e missionario in Indonesia. Lui mi ha entusiasmato per il modo profondo e spirituale con cui ha parlato di Dio e del vangelo. Mi ha proposto di salire in montagna per vedere come si viveva. Libertà, escursioni e tanto pallone mi hanno convinto!

Non tutto è stato tranquillo?
In noviziato ho visto che c’era il cosiddetto costumiere, una serie di regole. A me bastava il Cristo ed ero un po’ allergico alle regole. Sono stato dal maestro dei novizi, p. Ghezzi e gli ho confidato che mi ero sbagliato. Lui mi ha chiesto se credessi al vangelo e ai voti. Io ho risposto sì, ma le regole che mi proponevano mi sembravano esagerate. Mi ha raccontato che in Cina, dove lui era stato, era arrivato il costumiere da Parma. Ma, durante gli esercizi spirituali, l’aveva messo sotto il tavolo. Mi ha consigliato di fare la stessa cosa.

Crisi, dopo crisi…
Finito il noviziato sono entrato in Teologia a Piacenza. Al quarto anno, un’altra crisi. Ero convinto che, per parlare di Dio, si dovesse aver fatto esperienza di Lui, come diceva S. Giovanni. Allora, ho chiesto di partire per la missione. Così è sorto il conflitto tra il rettore (p. Spagnolo, fondatore delle saveriane) e il padre spirituale. Ho accettato di entrare nella lista per essere ordinato suddiacono. Ma, dentro di me, non vedevo chiaro, sentivo una lotta interiore fortissima, che mi ha bloccato. E non volevo continuare. I miei compagni hanno ricevuto il diaconato, io no.

Quindi cosa hanno deciso per te?
Mi hanno mandato a Udine a insegnare senza essere presbitero. Là ho ritrovato p. Ghezzi (mio maestro dei novizi). Ero animatore vocazionale, un incarico da prete! Dopo un anno, ho accettato di ricevere l’ordinazione. Era il 1959.

Poi, dove ti hanno inviato?
Insieme a p. Piatti volevano mandarci in Messico, ancora per insegnare, ma noi volevamo andare in missione. E la nuova DG, con mons. Gazza, ha destinato me in Burundi e p. Piatti in Giappone.
                                                                                                                                                    [continua...]



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