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Padre, parola che cambia la vita

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LA PAROLA
Gesù si trovava in un luogo a pregare, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11,1-4).

Siamo soliti denominare questo testo come il Padre nostro, a conferma di come la versione di Matteo, che inizia con questa invocazione, abbia prevalso su quella di Luca. Del resto, c’è forse preghiera più conosciuta, più pregata nel mondo cristiano che non sia il Padre nostro? Essa accomuna tutte le Chiese e tutte le confessioni divenendo, non senza ragione, una preghiera identitaria, che ci distingue da ogni altro credo e religione.

Eppure, proprio il confronto tra le due versioni può gettare luce su questa affermazione. Mentre in Matteo è Gesù che prende l’iniziativa di insegnare a pregare ai discepoli perché non siano “come i pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7), in Luca la richiesta dei discepoli nasce dell’aver visto il Maestro in preghiera. Ciò che Gesù trasmette ai suoi è ciò che egli stesso ha pronunciato poc’anzi nella sua preghiera. L’asciuttezza e la disarmante semplicità delle invocazioni riportate da Luca ci aprono uno spiraglio sull’abisso del mistero di Dio. Abbà in aramaico ha una connotazione intima e affettiva che potremmo rendere in italiano con babbo.

Parola buttata lì, forse usurata dall’abitudine, quasi scontata, eppure scontata non è, come non lo era allora. Certamente non mancavano nell’Antico Testamento riferimenti ad Adonai come Padre, ma mai tale appellativo era stato usato così spesso e in modo tanto determinante prima di Gesù. Non era affatto ovvio privilegiare questa invocazione in una società prettamente patriarcale, dove della figura paterna si esaltavano le prerogative di dominio e di autorità. La rivendicazione della maternità di Dio non è forse un tentativo di mettere in discussione, oltre a un titolo, l’uso discriminatorio e oppressivo che ne è stato fatto? Nessuna paternità può essere presa a modello, seppure analogico, della paternità di Dio, perché essa trascende infinitamente ogni esempio umano.

Dire babbo non è lo stesso che dire padre. Per Gesù, Dio non è prima di tutto il creatore e l’onnipotente, è il babbo, colui che si prende teneramente cura delle sue creature: le riveste come i gigli del campo, le nutre come gli uccelli del cielo, è loro vicino quando cadono a terra come i passeri stremati o uccisi. Padre non è dunque un semplice attributo, un appellativo, è il nome che dà forma alla relazione di Gesù con Dio, è la carne di Dio. Si potrà obiettare che è soltanto una parola, tuttavia è una parola che cambia la vita. Noi non siamo stati gettati nel mondo come monadi rotanti, siamo stati accolti da un abbraccio che non ci abbandona più e che sostiene la nostra speranza.

Se Dio è padre noi siamo suoi figli e figlie, non schiavi. Liberi anche di servire, ma liberi di farlo. La figliolanza segna ontologicamente ciascuno di noi. Non tutti si è padri, tutti però si è figli e figlie, dipendenti da una relazione generante. La radicale uguaglianza e dignità di ogni persona scaturisce da quest’unica paternità: “Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti”, scrive Paolo agli Efesini (4,6). Adesso si capisce perché nella versione di Luca non vi è l’aggettivo possessivo nostro. Certo, Dio è padre nostro, ma lo è in quanto padre di tutti: su buoni e cattivi fa cadere la pioggia, su giusti e ingiusti fa sorgere il suo sole.
Una preghiera che pareva identitaria si rivela come preghiera di ogni figlio e figlia di Dio.



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