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Normalità o desiderio di novità?

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L’irruzione del virus nella nostra vita ci ha destabilizzato e ha messo in crisi le nostre sicurezze personali. Ora, un po’ alla volta ne stiamo uscendo. La vita riprende. Certo, bisogna tener conto delle ripercussioni psicologiche, delle incognite, delle conseguenze economiche e sociali, dell’aumento della stanchezza fisica e mentale, delle depressioni, delle violenze...

Ma cosa desideriamo? Tornare alla normalità del pre-pandemia oppure, in questo periodo sofferto, abbiamo sentito anche il desiderio di novità, di andare oltre? Ritornare alla normalità di prima significa non aver imparato la lezione che la storia ci ha impartito. Come ha detto Papa Francesco il 27 marzo 2020, non era possibile pensare di restare sani in un mondo malato. La pandemia ha messo a nudo tutte le lacune della nostra società e la saggezza vorrebbe che queste fossero riparate, affrontate, gestite, curate. Se poi allarghiamo il nostro sguardo sul mondo, ci rendiamo conto di situazioni ancora più tragiche dove, anche prima della pandemia, non c’è nessuna sicurezza, nemmeno quella di… arrivare a sera.

Sarà che nella società in cui viviamo ci siamo sentiti troppo garantiti, al punto di prevedere tutto o quasi, mentre altrove, sotto altri cieli, c’è più allenamento alle mancanze, alle privazioni, alle incognite. Ma, soprattutto, c’è più allenamento alla reazione. Infatti, è quotidianamente che si cerca di reagire per far vincere la vita e sconfiggere la morte sotto le sue varie forme. L’incertezza dell’esistenza ha sviluppato di più la creatività nello sbrogliarsi, nel darsi da fare.
Papa Francesco ce lo ricorda nella sua enciclica Fratelli tutti: “Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza” (33).

Il Papa richiama uno dei suoi principi enunciati nell’enciclica precedente, la Laudato si’: “Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porsi rispetto alla realtà” (34) per cui si impone “un salto verso un nuovo modo di vivere” (35). Ecco, allora, che il sospirato ritorno alla normalità non dovrebbe coincidere con il modo di vivere che avevamo prima del Covid-19. Sarebbe più utile cambiare abitudini, incamminarci verso uno stile di vita più sostenibile, interessarci delle situazioni altrui, porre più attenzione al grido dei poveri. Sono coloro che portano il peso maggiore dei cambiamenti in corso.

Ma le ineguaglianze non sono tutte qui. Anche all’interno della nostra società stanno emergendo profonde differenze fra chi ha un reddito e un posto di lavoro garantito e chi è stato molto più colpito perché aveva un lavoro precario o è impegnato nei settori più colpiti dal lockdown.
Essere missionari, oggi, nel nostro mondo, dovrebbe motivarci nell’allenamento a gestire ciò che è sconosciuto, imprevisto, improvviso e a farlo insieme agli altri, per essere più forti, resistenti e solidali con tutti. Per chi poi ha il dono delle fede, questo potrebbe diventare un compito per aiutare altri ad entrare in questa visione delle cose. Come scriveva Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”, Dio sa volgere in bene tutto quello che ci capita, anche le cose più drammatiche, come questa pandemia, purché noi sappiamo mettere a frutto i suoi insegnamenti e non sprecare questa occasione.

Possiamo testimoniare la nostra fede imparando a gestire l’ansietà, il timore, la paura, gli imprevisti, gli inconvenienti, condividendo di più con chi ha bisogno e grida aiuto. Avere anche quella capacità di “reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale (FT 6), far crescere “una sincera e cordiale apertura universale (…) lasciandoci arricchire dagli altri (…) solidarizzando con i drammi degli altri popoli” (FT 146). Questa reazione oggi prende il nome di resilienza!



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