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La missione in… tandem, Intervista a p. Giulio Simoncelli

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Tra i saveriani che stanno frequentando il corso di tre mesi abbiamo chiesto a p. Giulio Simoncelli di offrirci il racconto della sua vita. Padre Giulio ha 74 anni ed è nato a Bondione di Valbondione (BG), alle pendici del Pizzo Scais (3.054 m), la vetta più alta delle Orobie bergamasche. È l'undicesimo di 12 fratelli. Papà Domenico e mamma Domenica hanno trasmesso ai figli una fede viva e rocciosa come i monti che li circondavano.

Com'è nata la vocazione missionaria?

Era l'ottobre missionario del 1944. Avevo nove anni e alla "Messa granda", celebrata da un missionario dei padri bianchi, ho partecipato anch'io con mio fratello. Stretto a lui per il freddo, mi sono addormentato. Alla fine della Messa il missionario ci diede un biglietto su cui bisognava rispondere alla domanda: "Cosa farai quando sarai grande?".  Davanti a mamma e a mio fratello Luigi scrissi: "Voglio farmi missionario". Mamma sorrise soddisfatta, mentre Luigi gridava perché scrivessi: "Voglio essere frate cappuccino". Andai nel pollaio, raccolsi due uova e le portai al missionario.

Poi cos'è successo?

Luigi entrò tra i missionari saveriani e io lo seguii facendogli notare che la sua scelta era frutto della mia decisione di essere missionario e non frate. Il sorriso della mamma nascondeva un segreto, rivelatomi dalle sue amiche soltanto dopo la sua morte: aveva fatto un voto al Signore di recitare il santo rosario ogni giorno in cimitero per le anime sante, impegnandole a chiedere a Cristo che scegliesse tra i suoi figli un missionario per l'Africa. Fu esaudita: non uno soltanto, ma due figli missionari in Africa. Padre Luigi e io abbiamo sempre riconosciuto che il dono della nostra vocazione è una grazia ottenuta dalla mamma.

Così tu e tuo fratello, insieme

Io sono entrato nella casa apostolica di Pedrengo a settembre del 1947. Mio fratello Luigi mi aveva preceduto di tre anni. Germogliò tra noi una profonda e rispettosa amicizia quando percepimmo che il nostro cammino rispondeva alla chiamata del Signore. Fondamento della nostra amicizia era Cristo, di cui eravamo vivamente innamorati.

Il cammino verso il sacerdozio è stato lungo e non sempre facile, superando le tappe del noviziato, gli studi liceali e della teologia. Dopo l'ordinazione sacerdotale, p. Luigi fu nominato direttore spirituale degli studenti di Alzano Lombardo, mentre io esercitai l'ufficio di economo di due noviziati.

Quando la missione?

Finalmente nel 1968 fummo destinati tutti e due al Congo. Ricevuta la notizia, mio fratello mi telefonò e si mise a cantare: "In exitu Israel  de Aegipto - Quando Israele uscì dall'Egitto...", verso la terra promessa. Dopo tre mesi in Belgio per studiare il francese e sei mesi per imparare la lingua kiswahili, arrivammo alla missione di Mwenga, in Zaire.

Per due anni ci siamo dedicati alla conoscenza delle tradizioni e delle ricchezze culturali locali. Poi, la nostra vita missionaria a due si spezzò, perché mio fratello Luigi morì in un incidente aereo il 10 febbraio 1970 con altri due compagni di viaggio: p. Narciso Guerini e fratel Tersilio Pirani, il pilota.

Come hai reagito?

Quella data segnò l'inizio del mio totale impegno per la missione di Cristo. Fu il giorno del mio nuovo battesimo, attraverso il quale sperimentai l'unione tra la missione e la croce. La pace interiore subentrata all'asprezza del dolore mi liberò dal diritto di scoraggiarmi nel servizio offerto a Dio per la mia gente.

Fui nominato parroco di Ngene, unica zona musulmana del Congo. Per otto mesi, durante la guerra civile (1996-1998), ho vissuto con un confratello in un isolamento totale. Poi mi fu chiesto di diventare maestro dei novizi, a Kinshasa, incarico che ho svolto fino al 2006. Dopo di che, ho chiesto e ottenuto di tornare nella foresta, come "soldato semplice".

Come sta la chiesa congolese?

La chiesa congolese nasce e cresce insieme con il suo popolo, condividendone valori e povertà. Ci sono molte vocazioni sacerdotali e religiose che possono far pensare a una chiesa autosufficiente, ma non è così. C'è ancora bisogno di un forte sostegno, soprattutto per la formazione dei seminaristi. Un altro problema è la fuga del clero africano verso le università straniere. La gente vive la propria fede con grande impegno, ma la fame e la miseria non sono mai state amiche di nessun progresso.

La cultura congolese aiuta la vita religiosa?

Il giovane congolese deve prendere in considerazione gli impegni dei voti religiosi e soprattutto del celibato. Per l'africano la paternità fisica è un bene assoluto. Avere un figlio erede è un'esigenza culturale per tutti; è la condizione per continuare a vivere in un'altra vita. Non sono esenti neppure preti, religiosi o suore. La grazia può fare miracoli e li fa, ma queste esigenze culturali costituiscono una difficoltà da superare con un forte impegno personale.

Terminato il corso di aggiornamento, p. Giulio tornerà in Congo, "nella foresta", come lui dice. Gli facciamo l'augurio di "buona missione"!



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