La missione chiama: La mia vita nelle tue mani
Il mattino di Pasqua le donne corrono a portare agli apostoli l’annuncio inaudito: "Gesù è risorto! Egli è vivo!". Come rimanere indifferenti a un tale annuncio, spesso sigillato dai primi cristiani a prezzo del proprio sangue? Scrive l'apostolo Giovanni: "Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto" (1 Gv 4,16).
"Ora capisco la Pasqua. Dopo la notte dell’inverno, rispunta la vita".
Così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. E una mamma, a cui è morto un figlio tragicamente, mi aiuta a cogliere la profondità del mistero pasquale che penetra e passa attraverso ogni persona. Mi dice: "Per quanto bene si possa avere per un figlio, non si può evitare l’esperienza pasquale anche per lui".
All'inizio di marzo, il mistero pasquale ha illuminato la sofferenza e la morte di un nostro confratello, p. Angelo Geremia, missionario saveriano coraggioso e umile. Il Signore non lo ha abbandonato ma lo ha accolto, amato e condotto alla pienezza della vita.
Il nostro nascere e il nostro morire è in relazione con la Pasqua di Gesù, con la sua morte e la sua risurrezione. Ma questo è anche il motivo della nostra speranza, perché la risurrezione è l’ultima parola della vita.
Ricordo l’esperienza durante una malattia, che poi si è ripetuta più volte.
Cercavo di ripetere il mio sì al Signore Gesù; chiedevo di pregare con me, di aiutarmi a dire sì… Il Signore mi aiutava a mettermi a zero, a cogliere meglio l’essenziale. Lo amavo in quel nulla che mi rendeva tanto vicino all’esperienza dell’ateo. Non avevo nulla in me, perso dagli altri malati. La sua luce mi raggiungeva e mi portava all’abbandono. Ripetevo la Parola con cui ho visto Gesù consolare tanti malati: "Padre, nelle tue mani metto la mia vita".
È meraviglioso sapere che Gesù ha voluto vivere la nostra notte prima della risurrezione. La sua passione è esperienza della "lontananza" di Dio, culminata nel grido sulla croce: "Dio mio, perché mi hai abbandonato!". La soluzione è stata quella di stringersi più forte a Lui: "Padre nelle tue mani metto il mio spirito".
Sullo sfondo dell’esperienza di Gesù crocifisso c'è l’immagine della cerva, del salmo 42. Non c’è nulla di idillico. Il paesaggio è quello di un torrente estivo, su cui si aggira una bestia assetata in cerca di una pozzanghera d’acqua; e non la trova e grida dalla sete: "Come una cerva bramisce su torrenti inariditi, così l’anima mia grida a te, o Dio".
L’amore di Dio per noi si è così manifestato.
Egli ha voluto conoscere le nostre paure e le nostre angosce. Gesù ci ha insegnato che il Dio vicino è anche il Dio lontano, e la sua lontananza è il segno della sua trascendenza. Non è il Dio che noi ci facciamo, a volte, a nostra misura o per la nostra protezione. È invece il Dio che Abramo ha incontrato nella spogliazione, nella fiducia totale; il Dio che Mosè ha ascoltato e conosciuto nel cammino dell’esodo verso la liberazione e la dignità.
È soprattutto il Dio che in Gesù si è rivelato totalmente dono e che possiamo incontrare e seguire solo imparando l’amore che penta accoglienza e ricerca dell’altro, servizio e perdono, apertura ai deboli e dono di sé fino alla croce.
"Il Crocifisso è il grande libro sul quale si sono formati i santi e sul quale dobbiamo formarci… Per questo al missionario che parte ad annunciare la buona novella non viene fornita altra arma all’infuori del Crocifisso". Così diceva mons. Conforti. E il suo successore mons. Bonicelli scrive: "È necessario impegnarci per far incontrare le persone con Gesù e quindi dare loro il bene più grande che esiste, che è il bene della fede".
Per questo le donne corrono ad annunciarlo ai discepoli. Incontrare Dio: è tutto! Significa legarsi al perno della sua esistenza.
E Dio è Amore! "Dammi, Signore, di accogliere il tuo Nome, di dire il tuo Nome a quanti ti cercano nella notte".