Come il Buon Samaritano
La mia vocazione di volontario per assistere le persone bisognose ha origini lontane. Già da ragazzino due tipi di persone attiravano la mia attenzione: i bambini e gli anziani. Volevo mettermi a disposizione dell’altro, per percepire il contatto umano come strumento di redenzione e incontro con il Signore. Ho lavorato alle Poste, a tu per tu con la gente. Notavo che durante il pagamento delle pensioni, le persone anziane avevano difficoltà a firmare il mandato, a conteggiare i soldi. Per loro era importante vedere un sorriso che li tranquillizzasse. Un giorno ero su un autobus che, tutto d’un tratto, si è scontrato con il motorino di un ragazzo. Tutti parlavano dell’accaduto, ma nessuno muoveva un dito per soccorrere il motociclista. Mi avvicinai e mi inginocchiai. Gli feci una carezza per fargli capire che qualcuno era con lui e mi accorsi che si sentiva confortato. Rimasi un attimo in silenzio, pensando a quanto era accaduto. Capii che il mio egoismo mi aveva bloccato fino ad allora e che bastava poco per aiutare il prossimo. Capii che l’amore per il fratello significava prima di tutto sporcarsi le mani ed essere disponibili anche quando la propria indole oppone resistenza… Capii che dovevo smettere di pensare alla mia realizzazione personale. Il bene può essere fatto in tutti i momenti e in tutti i luoghi. Con un po’ di volontà si può sempre dare speranza, regalare un sorriso. Da allora indosso l’abito del “Buon Samaritano”, perché è la volontà di Dio.
Giampiero Sartori
Caro Giampiero,
grazie per questa bellissima testimonianza, tratta dal tuo libretto “Dieci anni con i padri saveriani anziani e malati” (ed. Graphital, Parma 2016). Anche papa Francesco ci invita a superare la paura dell’altro, di chi soffre, toccandogli la mano, guardandolo in faccia, “con lo stesso sguardo di Cristo sulla terra, che sa riconoscere i milioni di Cristi che oggi muoiono sulle croci da noi costruite”. Per il sociologo Aldo Bonomi, “serve una rivoluzione dello sguardo e del linguaggio; dovrà essere sempre più il linguaggio della comunità, non quello delle élite, il linguaggio della cura, non quello dell’odio” (Avvenire, 24-1-2018).
Come possiamo reagire alla cultura della paura e del crescente disprezzo verso i più indifesi? Siamo forti con i deboli e deboli con i forti! Francesco dice: “Avere dubbi e timori non è un peccato. Tuttavia, il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore” (16-1-2018).