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Seguo con interesse il giornale, anche come conterraneo di san Guido Conforti. Mi pare di capire che la situazione ad Asharbari in Bangladesh si sia complicata. In Pakistan Punjab, tanti cristiani sono uccisi in diversi attentati (dati ufficiali del Vaticano parlano di 13 cristiani, in media, martirizzati ogni giorno) per non parlare degli oltraggi subiti… Non mi pare vada tanto meglio in Congo RD. Date le potenziali minacce, io mi chiederei se vale ancora la pena restare in certi territori.
                                                                                                                                   Piergiorgio, Mestre

Caro Piergiorgio, grazie per seguirci con così grande attenzione e per avere uno sguardo profondo sulla situazione mondiale e missionaria, a iniziare dai nostri saveriani. La risposta più semplice alla sua naturale e umana obiezione sarebbe quella di invitarla alla lettura delle pagine centrali dedicate al Bangladesh. Senza scomodare la vocazione al martirio, che significa testimone e che rimane comunque un’opzione da considerare, i missionari lavorano in tanti campi e a contatto con religioni diverse. Sarebbe più semplice restare nel proprio… recinto. Che poi sarebbe semplice solo sulla carta, considerati le chiusure di cuore, gli egoismi, le paure e i pregiudizi che abitano le nostre latitudini. Talvolta, il dialogo con i rappresentanti delle altre religioni è meno arduo che un confronto con chi culturalmente si professa cristiano, ma poi non sembra condividere e vivere certi valori.
Lo sforzo, ad esempio, che i missionari stanno profondendo nel Golfo del Bengala s’inserisce nel quadro del cattolicesimo in cui credono e crediamo, cioè l’universalità che non può essere confinata in una “comfort zone”. Certo, non mancheranno mai sofferenze, sconfitte, delusioni, ma sono convinto valga ancora la pena portare il messaggio del Vangelo a chi ancora non lo conosce o addirittura a chi lo disprezza. Non c’è masochismo. A nessuno piacciono le “porte in faccia”. Ma non possiamo selezionare i territori, a seconda delle religioni che li abitano, soprattutto poi quando si tratta di vocazione, della chiamata che Dio stesso fa a qualcuno per portare il suo progetto proprio là dove ce n’è più di bisogno e dove probabilmente non andrebbe nessun altro! Quei territori poi sono una palestra insostituibile per capire i fedeli di altre religioni che arrivano a noi attraverso i processi migratori. L’ho constato di persona, vedendo p. Marcello Storgato, già direttore di MS, allacciare rapporti con i cittadini bengalesi residenti in Italia. La sua esperienza in missione gli permetteva di conoscere esigenze e bisogni, di sapere quando poteva dire sì e quando era meglio dire no. Perché nel dialogo non c’è nulla di scontato. Non è solo una somma di riti e gesti esteriori, belli da raccontare e vivere. È un confronto sincero e diretto sulle grandi questioni della vita che spesso possono incontrare un terreno comune, altre volte no. L’importante è non dimenticare il rispetto reciproco. Buona missione in dialogo, ovunque noi siamo.



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