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Pubblichiamo parti dell’ultima lunga lettera scritta da p. Facchetti, saveriano di Viadana, missionario in Mozambico.

Non ero mai stato al nord. All’ inizio 2018, sono andato a Nampula, terza città del Mozambico, con p. Cesare Reghellin, con il quale ho vissuto per due anni a Charre, e p. Epitace, burundese. La strada non è male: Nampula dista 770 chilometri e 14 ore di jeep. Tutto sommato, poco rispetto alle 15 ore che si impiegano per raggiungere Beira, capoluogo della nostra regione, che si trova a 500 km. Nampula è terra verde, monti di origine vulcanica si alzano improvvisi e paiono macigni scivolati dal cielo.

Il giorno successivo andiamo all’Isola di Mozambico, a circa 200 km da Nampula. È collegata alla terra ferma da un ponte stretto e basso, costruito cinquant’anni fa, in epoca coloniale. È molto piccola, con i suoi soli 3 chilometri di lunghezza, ma - scherzi della storia - dà il nome all’intero paese. “Mozambico” deriva, infatti, da “Mussa Ben Mbiki”, il nome di uno sceicco che visse nell’isola. Fin dal X secolo, l’Isola è stata un centro importante per i mercanti arabi che vendevano tessuti in cambio di oro, avorio e schiavi. Nel 1498 arrivò Vasco de Gama e i portoghesi ne fecero un punto di passaggio fondamentale nella circumnavigazione dell’Africa. L’isola fu tanto vitale da essere la capitale del Mozambico fino al 1898, quando si optò per Maputo. Nel 1541, vi si fermò per sei mesi anche san Francesco Saverio, in attesa dei venti favorevoli per andare in Oriente.

Le chiese in stile barocco, da cinquecento anni, si stagliano chiare tra l’azzurro dell’oceano e del cielo, tra il bianco delle onde e delle nuvole. Trovano la compagnia di palme alte e slanciate, sotto le quali i bambini smettono di giocare a calcio con un pallone fatto di sacchetti di plastica, appena notano avvicinarsi qualcuno, per chiedergli qualche spicciolo. I volti e la pelle di chi abita l’isola sono l’eredità di una storia violenta, che ha intrecciato forzatamente l’Africa, l’Europa e l’Asia. Eppure, da questo crocevia segnato da brutalità e sangue, osservando i volti, si prende atto di come l’umanità abbia potentemente generato vita e bellezza. È stato e sarà sempre così, con buona pace per chi altrettanto violentemente e brutalmente si ostina, oggi, a sbarrare il migrare dell’umano.

All’estremità settentrionale dell’isola c’è una fortezza imponente, con quattro baluardi possenti. Intitolata a San Sebastiano, all’interno, c’è anche una chiesa che porta il suo nome. La fortezza serviva per difendersi dagli attacchi di arabi, olandesi e francesi, che, per secoli, si contendevano con i portoghesi le rotte commerciali verso l’Oriente. In cima, ci sono ancora cannoni e croci, gli uni accanto alle altre. Sotto la fortezza, vicino alle cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, ci sono i sotterranei dove erano ammassati gli schiavi, prima di essere caricati su scialuppe che li avrebbero imbarcati sulle navi ancorate al largo dell’isola. Gli schiavi erano destinati alla penisola arabica, alle isole dell’oceano Indiano e alla Turchia. Altre navi raggiungevano il Brasile, altra colonia portoghese.



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