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IL PONTE SPEZZATO COME METAFORA / UNO SGUARDO DAL SUD DEL MONDO

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Quando c’è un incidente, un incendio, una voragine sulla strada, un’inondazione che spazza via un quartiere, qui la gente dice Inch’Allah. Era la volontà di Dio, che tutto sa, può e governa. Una visione monista e fatalista che contiene la parte di verità che le si vuole affidare. Altrove nel mondo invece si creano commissioni, si fanno inchieste e si arriva infine ad un rapporto che evidenzia le responsabilità dell’accaduto. Legittimo e forse anche doveroso passo, soprattutto per ridurre le possibilità che quanto accaduto torni ad accadere, almeno nella stessa forma. A suo modo ognuno ha una parte di ragione: nella realtà c’è una parte di spiegabile e un’altra parte invece da interpretare.

Il dolore delle famiglie che hanno perduto in modo brutale i loro cari e le ferite di un’intera città sono quanto accumuna le letture che si faranno dell’accaduto. C’è la difficoltà ad accettare il perché di una morte arrivata sotto questa forma. Ogni morte, lo crediamo, è particolare. Le circostanze e il contesto ne definiscono il mistero e l’unicità. I fatti non parlano da soli e abbisognano di interpretazione. Ed è a questo punto che, pena il fermarsi allo sdegno o alle accuse,  il ponte spezzato può presentarsi come una metafora della nostra società. Le prime reazioni “ufficiali” all’avvenimento lo confermano. Si cercano altrove le cause senza tentare di leggere i “segni dei tempi” che questo ponte spezzato può offrire.

Siamo in un paese che ha spezzato i ponti all’interno e all’esterno di sè. All’interno anzitutto, contribuendo a dividere un Paese che non sa più bene cosa o chi tenga assieme. La divisione è confermata tra l’altro con le parole, vere sciabolate nel vuoto dell’anima, o le squallide ricuperazioni di parte. E poi con le scelte economiche e politiche che confermano l’accettazione di una società che viaggia a diverse velocità e intensità. Divisioni interne che quelle esterne evidenziano. Lo smarrimento della memoria, profondamente innato col capitalismo e profetizzato, tra gli altri, da Pasolini, è da tempo una realtà. L’oblio dal dove si viene preclude il senso della destinazione del viaggio. Si è censurata l’esperienza del mondo contadino, operaio e soprattutto l’epopea delle migrazioni. Esterne anzitutto, coi milioni di connazionali partiti altrove a cercar fortuna e poi delle migrazioni interne, dal sud al nord della Penisola, dalla campagna alla città.

Abbiamo tagliato i ponti col Mediterraneo. Mare nostro, mare - muro, mare chiuso, mare armato e infine mare tradito. Con respingimenti, divieti di sbarco, operazioni di dissuasione tramite la guardia costiera libica e campi di detenzione/concentramento migranti gestiti e finanziati, il ponte si è spezzato. Ed è quanto è accaduto a Genova col ponte Morandi. I duecento metri di vuoto sono i metri di separazione tra i popoli, tra la Costituzione del Paese e la realtà vissuta, tra il tradimento delle esperienze di solidarietà e la chiusura ermetica allo straniero. Il ponte tagliato sul torrente Polcevera è una metafora delle nostre separazioni. Non saranno le mere soluzioni tecniche a riabilitarlo e neppure la ricerca delle responsabilità penali. Il ponte da ricostruire è quello delle coscienze e dei legami da ristabilire con la propria storia e con l’altro.



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