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Dove c’è guerra siamo tutti perdenti

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Saveriano di Vicenza, classe 1944, p. Francesco Zampese da qualche mese è ospite della comunità di Brescia per trascorrere un periodo di riposo. L’abbiamo intervistato.

Com’è nata la tua vocazione?
Sono entrato dai saveriani a 17 anni, dopo essere cresciuto in un ambiente parrocchiale. Avevo avuto un’esperienza difficile con il mio parroco, che mi aveva deluso nella relazione con noi giovani. Ero arrabbiato con il clero in generale e, per reazione, ho pensato di entrare nella chiesa, per “rimpiazzare” quel tipo di sacerdozio. Ho scelto i saveriani perché già c’era mio fratello. E ho proseguito fino all’ordinazione, nel 1971.

Poi è stata subito missione in Africa?
Sì, nel 1973 sono sbarcato in Congo RD a Bukavu, dove sono rimasto per 25 anni, 16 dei quali nel Kivu. Ero con p. Silvio Turazzi. Ho cercato di affrontare le sfide sociali e i problemi della gente, a partire dalla periferia di Bukavu. Sono passato a Kamituga, dove c’era una multinazionale franco-belga che estraeva l’oro. Lì, ho visto come l’economia mondiale agisce e sfrutta. Sono stato accanto ai minatori, pagati al giorno meno del costo di un uovo. E nel frattempo a Bruxelles si inviavano i lingotti d’oro. L’Africa è sempre stata il supermercato dell’Occidente. L’unica dogana sembra essere la persona, ma il capitale non ha dogana.

Cosa hai fatto?
In Congo ho fondato gruppi di opinione (Geremia a Bukavu, Amos a Kinshasa) che hanno contribuito a destabilizzare la presidenza Mobutu. Nelle piazze c’erano delle bacheche e ognuno apponeva articoli di denuncia delle cose che non andavano.

Non hai avuto problemi?
Sì. Sono stato minacciato varie volte, anche processato. La pagina più triste, però, è stata assistere al genocidio ruandese (1994-1996) con il massacro degli hutu… A Goma, nella nostra parrocchia, noi avevamo un milione e mezzo di profughi ruandesi. Nel 1998, a causa del mio impegno in favore dei diritti umani, sono stato costretto a lasciare il Paese... È stata un’esperienza missionaria pericolosa, ma appassionante.

Poi cos’è successo?
Dopo 5 anni a Parma, ancora con p. Silvio, all’associazione “Chiama l’Africa”, nel 2003, ho chiesto di tornare in missione e mi hanno mandato a Douala, in Camerun. Ho vissuto l’esperienza della parrocchia, ma sempre con l’obiettivo di costruire un progetto di società, con una visione sinodale. In Camerun mi sono sentito benestante, rispetto al livello sociale del Congo. Perché dove c’è guerra, siamo tutti perdenti.

Cosa fai in Camerun?
A Douala, ho contribuito a fondare una grande parrocchia con una scuola per 1.200 bambini (asilo ed elementare). Nel 2016, alla periferia di Douala, in campagna, mi hanno dato la responsabilità di una nuova parrocchia, dove non c’erano strade né corrente elettrica. Pensavo di poter inaugurare la grande chiesa, ma, a fine 2017, sono stato costretto a rientrare. La linea missionaria, però, non è mai cambiata: sfide sociali vissute in un contesto pastorale.

Come vedi l’Italia?
La gente italiana la trovo ancora generosa e sensibile, ma, come idee e coscienza, noto poca preparazione e molta ignoranza. Manca una visione mondiale e spesso questo clima contagia anche noi missionari, che diventiamo conservatori e perdiamo la voglia di cambiare.

E papa Francesco?
Un tesoro. Il suo modo di comportarsi dà respiro. C’è un tentativo di banalizzare il suo pensiero (non è teologo, non è profondo…), ma i suoi gesti parlano più di mille parole: la forza dei gesti, non i gesti della forza.



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